martedì 3 febbraio 2015

Wallace Stevens

Le Note verso la finzione suprema hanno la forza di una confessione, l’eleganza inaudita di un poema classico e la ruspante essenza di una ballata popolare. “Le giuste parole” di Wallace Stevens costituiscono una terra comune tra la finzione e la realtà o una trincea, per l’occasione, una forma di dialogo filosofico e un canto accompagnato dal banjo, la cosa in sé, il reale e la sua armonia con l’impossibile, dove “alla fine ciò che dovremmo trovare è la vita normale, penetrare in ciò che è comune, riconciliarsi con la realtà. Il problema è che la poesia è in gran parte una vicenda di trasformazioni”. Il filosofo desidera essere il poeta, il poeta risponde con le parole alle idee, i versi vogliono essere musica che “piomba sul silenzio come una sensazione, una passione che proviamo, senza comprendere”. La finzione esiste già nell’atto di esistere. Credere, in definitiva, significa avere fiducia in qualcosa di irreale, non tangibile, meno ancora, verificabile. Anzi, “il primo passo verso una finzione suprema dovrà essere quello di liberarsi di ogni finzione già esistente. Una cosa risalta più chiara nell’aria pulita che se coperta di fuliggine”. Suprema ed estrema, la finzione è la linfa vitale, essenziale, la cosa in sé e più della cosa in sé: è un modo, ovvero il modo, per percepire la realtà e la vita (in sé). Il giocoso labirinto poetico porta in un rebus di parole dove le Note verso una finzione suprema diventano contraddittorie, ondeggiano come i riflessi di un miraggio, fluttuano tra l’astrazione più criptica e il candore dell’ingenuità, tutto e il contrario, al punto di dire che “ci sono cose di fronte alle quali volentieri sospendiamo la nostra incredulità; se c’è in noi una istintiva volontà di credere, a me pare che possiamo sospendere il dubbio riguardo alla finzione, così come lo sospendiamo di fronte ad altre cose. Ci sono finzioni che sono ampiamenti di realtà”. Wallace Stevens incanta perché non declama, sussurra in continuazione, i suoi versi sono come quel vento che è l’unico modo con cui gli alberi possono fare musica: intuitivi, leggeri, impalpabili, perfetti. Un canto americano e quando (per dire: sempre) “la vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti”, ecco che sfodera, con sublime eleganza, “un elisir, una tensione, un puro potere. La poesia, grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura”. La mutazione è avvenuta: un po’ era prevedibile perché “naturalmente alla lunga, la finzione suprema sarà la poesia; l’essenza della poesia è che trasforma, e l’essenza della metamorfosi è che dà piacere”. Un po’ è indispensabile e Wallace Stevens si premura di spiegare senza possibilità di svista, la funzione ultima delle Note verso la finzione suprema: “Scoprire un ordine come quello delle stagioni, scoprire l’estate e conoscerla, scoprire l’estate e conoscerla, scoprire l’inverno e conoscerlo bene, trovare, non imporre, non ragionare affatto, ma dal nulla arrivare a tempo maggiore, è possibile, possibile, possibile. Deve essere possibile. Deve poter accadere che negli anni il reale si levi oltre i suoi rozzi aggregati”. Una limpida invocazione.

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