lunedì 23 febbraio 2015

Joan Didion

La prima volta che Jack Lovett incontra Inez Christian, lei è soltanto una ragazza abbandonata dai genitori con la sorella, Janet. I loro destini, scivolando in modo impercettibile ma costante, come placche tettoniche, torneranno a sovrapporsi vent’anni dopo, in circostanze rocambolesche. Nel frattempo, Inez Christian ha sposato Harry Victor, un politico in carriera, e con lui, il suo portavoce, Billy Dillon, capace di dissimulare la fuga di Paul (il papà) e poi di Carole (la mamma), la prima crepa nell’albero genealogico dei Christian, in un riassunto a suo modo cangiante: “Compagni in un matrimonio sorprendentemente contemporaneo in cui si garantirono reciprocamente la libertà di seguire interessi assai vasti”. E’ solo uno dei numerosi fuochi d’artificio di Democracy che è brillante, acuto, e nello stesso tempo leggero e sempre attinente alla storia e alla deriva postcoloniale nell’oceano Pacifico con tutte le ambiguità, le tensioni e i drammi di un’era al crepuscolo. Il modello dei movimenti tellurici si può applicare anche alle vite ai suoi personaggi e al corso degli eventi storici. Pur muovendosi secondo uno schema in apparenza caotico e imprevedibile, la sintesi di Democracy è efficace per tutto l’arco del romanzo, per quanto la stessa Joan Didion ammette che “non solo ho sempre avuto problemi a distinguere tra quello che è veramente successo e quello che sarebbe potuto succedere, ma continuo a non essere convinta che la distinzione, ai miei fini, abbia qualche importanza”. Fin dall’incipit, Joan Didion è esplicita, eppure gioca nascondendo le sue pedine: nella prima parte di Democracy piazza quasi tutto l’album fotografico della famiglia Christian solo per creare uno spazio in cui far scivolare Jack Lovett. Il personaggio è ambiguo (molto) e ci vuole una certa nonchalance a calarlo nel ruolo di protagonista. Il suo compito, tra l’altro, è quello di introdurre Inez Christian e a questo punto, quasi senza accorgersene, si sta già nuotando nel mare opaco e turbolento di Democracy. Lo sfondo del Vietnam in tutte le sue gradazioni resterà lì fino alla fine, l’apertura a sorpresa è solo per sottolineare che la storia d’amore, quella tra Inez Christian Jack Lovett resta sospesa sull’oceano, tra un aereo e l’altro, e nel tempo solo che “nel 1975 il tempo non stava più accelerando, stava crollando, ricadeva su se stesso come una stella che si sta disintegrando si contrae in un buco nero, e davanti a tutto quello che non avevo imparato riuscivo soltanto a raccogliere frammenti di poesie che ricordavo malamente”. Questo presuppone un ulteriore livello di profondità nel corso di Democracy ed è nel rapporto tra Joan Didion e il lettore che lei riassume così: “Il cuore del racconto è un’ellisse calcolata, un contratto tacito fra lo scrittore che promette di sorprendere e i lettori che accettano di essere sorpresi”. Duecento pagine dopo, tutti gli strati di Democracy si incastrano alla perfezione e con una chiarezza davvero straordinaria, frutto della considerazione ultima che Joan Didion ha del suo lavoro: “Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto cercando, cosa vedo e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura”. Molto moderno, molto utile, perché tra le righe contiene anche un corso di scrittura creativa, Democracy è qualcosa in più di un (bellissimo) romanzo.

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