E’ il 1965 e Guy Bishop lascia il
suo lavoro alla Boeing. La sua versione è che “l’azienda stava lasciando a casa
un po’ di gente”, ma la verità è che, nell’anno dell’esordio dell’operazione
Rolling Thunder, l’escalation dei bombardamenti sul Vietnam, il lavoro
nell’industria aeronautica proprio non mancava, anzi. Soltanto che Guy Bishop è
un sasso che sta rotola senza direzione e si lascia alle spalle i figli, i due
fratelli Philip e Keith. E’ il primo triangolo che si spezza nel racconto di
Tobias Wolff, aprendo le porte a destini diversi: Keith scomparirà sulla strada
verso San Francisco, mentre Philip resterà con la madre a soffrire, prima di
arruolarsi nell’esercito. La frattura non potrebbe essere più evidente e nelle
progressioni matematiche della narrativa di Tobias Wolff una nuova
triangolazione si riproduce attorno a Philip. Durante l’addestramento incontra
Hubbard e Lewis e con loro vive un momento di pura follia mentre montano la
guardia a un deposito di munizioni. L’episodio è solo uno dei tanti a rivelare
la sottile e non meno feroce critica nei confronti delle strutture militari a
cui Tobias Wolff non sfugge dai tempi in cui prestava servizio Nell’esercito
del faraone. Ecco, per esempio, come
descrive una giornata al poligono: “Sagome a grandezza d’uomo si alzavano e si
abbassavano mentre un battaglione di reclute sparava a raffica. I proiettili
passavano fischiando sopra i fossati dove eravamo accalcati e alla fine del
pomeriggio si capì che a vincere erano stati i bersagli”. Il segnale è eloquente,
il disorientamento, totale: Il colpevole usa le diverse prospettive da cui inquadra la storia, soprattutto nella
seconda parte, e il finale crepuscolare e malinconico, per mettere in risalto
un coacervo di menzogne e barriere emotive, di coscienze confuse e di
imposizioni gerarchiche, di rimpianti e di incomprensioni. Quando la caserma in
cui è incastrato Philip viene punteggiata da strani furti notturni, Il
colpevole diventerà l’ombra su sui saranno
proiettate tutte le tensioni. Tutti sanno che è lì, che è uno di loro, che è
solo una questione di tempo, e si scoprirà Il colpevole, ma proprio come fa con gli incastri tra i
personaggi, che si sganciano uno dopo l’altro, qualcuno sparisce sempre,
rendendo incomplete le sue figure geometriche, Tobias Wolff fa lo stesso con la
storia in sé, lasciando che si dischiuda nel finale, quando tutti credono sia
conclusa e coincida con il destino che aspetta Il colpevole, mentre diventano invece palesi i riti di passaggio,
la scoperta della vita, la morte che incombe, le linee tracciate che si
spezzano. E’ questo il metodo che Tobias Wolff usa con convinzione: la
scrittura è sinuosa e insinuante, la tensione è sempre a livello di guardia e
il ritmo incalzante, ma la prospettiva, all’inizio come alla fine, è spiazzante.
Non c’è alcuna forma di consolazione, i personaggi svaniscono in una foschia di
solitudine, le parole sono appena sufficienti a circoscrivere le emozioni, e la
loro utilità e insieme la loro impotenza è tutta lì. Amaro, amarissimo.
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