Scott Carey è un uomo semplice, ed è solo. La moglie l’ha lasciato e non ha né figli né parenti. Nella casa di Castle Rock, gli resta il gatto, Bill D. Cat, ed è tutto. Tra i pochi amici, resta Bob Ellis, un tempo suo medico curante, a cui, nell’incipit di Elevation, sta confessando la sua strana situazione. Secondo la bilancia, Scott sta dimagrendo lungo una progressione esponenziale che, stando a un rapido calcolo, lo vedrà svanire in fretta dalla faccia della terra. In apparenza, però, è tutto inalterato (a partire dalla pancia prominente) ed è lì che Stephen King gioca sull’equivoco (fisico) tra massa e peso, collocando Scott sulla soglia di un’inevitabile partenza. Più che un elemento fantastico, quello che succede a Scott è un derivato della vita animale e/o ancestrale, dove è preferibile sparire invece di morire. Da cosa dipende, o da dove arrivi, è relativo. In effetti è una nuova prospettiva che Scott non vuole sia trattata come una malattia (lui comunque sta molto bene) e desidera che rimanga “una questione privata”, piuttosto che diventare una cavia di laboratorio o un fenomeno da baraccone, e anche questa è una riflessione non banale. Scott, curiosamente, va avanti per inerzia, ed è difficile dire se la solitudine sia la zavorra che sta lasciando o la leggerezza che sta acquistando. Al cambio della stagione, dall’autunno alla primavera, avviene la svolta che Scott decide di assecondare e, come si vedrà, persino di accelerare, con il proposito di andarsene con un bel gesto, un buon ricordo, una piccola cosa importante che forse è tutto quello che possiamo lasciare alla forza di gravità. Le circostanze di fronte a un evento straordinario richiamano la necessità di una riconciliazione, non fosse altro che una buona parola con i vicini (le vicine) di casa. Un suggerimento nemmeno tanto nascosto che, di questi tempi, appare persino rivoluzionario. Nell’era provinciale e intollerante di Trump, la piccola città di Castle Rock è infettata dal rancore e dal sospetto ed è appesantita dall’astio (del tutto ingiustificato) nei confronti di Deirdre e Missy, lesbiche, (anzi, lesbeche, come dicono i bifolchi) sposate e proprietarie di un ristorante messicano (vegetariano) sulla Main Street di Castle Rock. Il pregiudizio e lo sfoggio dell’ignoranza che stanno diventando i tratti distintivi e corrosivi del ventunesimo secolo vengono visti dagli occhi di Scott, nella sua particolarissima condizione, in modo diverso, come se l’assenza di peso gli avesse spalancato, insieme agli occhi, un’opportunità, un inedito modo di vedere la realtà, a partire dalla valutazione dell’esperienza in sé che gli fa domandare: “Perché sentirsi triste per una cosa che era impossibile modificare? Perché non sfruttarla, invece?”. Da lì in poi la catena degli eventi è serrata e porta Stephen King, di solito prodigo nel divagare e diramare le sue storie, a concentrarsi su una mezza dozzina di personaggi, che ruotano attorno a Scott, e a Deirdre e Missy. Il rapporto con Scott è in salita: Deirdre è combattiva e risoluta, il clima di ostilità è irrespirabile e il confronto non è agevole (non lo è mai) perché Scott deve “imparare un bel po’ di cose” (come tutti) e Stephen King condensa l’esperienza in un paio di snodi essenziali come se Elevation fosse un fumetto, diretto, elementare e pop nella sua essenza. La definizione della storia avviene nel corso di una prova fisica, la temuta corsa del Tacchino, dove si riversa tutta la popolazione di Castle Rock. La maratona cittadina offre l’occasione dell’epifania, condivisa da Scott, Deidre e Missy, che rende Elevation quasi una favola che inquadra nel momento dell’addio, la consapevolezza che il posto e il ruolo sulla terra è relativo e che “quel che meriti non ha niente a che fare con la posizione in cui arrivi”. Brillante, anche nel ricordare Richard Matheson.
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