Un’umanità esitante, che viaggia senza sosta, eppure è immobile. Uomini e donne che cercano di trarre il meglio dalla solitudine, eppure non sono mai davvero soli e non riescono a stare insieme. Si perdono e si trovano, incorniciati da frammenti di neon nei sobborghi americani, un tratto comune a tutti i personaggi di Ci troviamo a Moontown. I racconti dell’esordio di Jay Gummerman, anno di grazia 1989, hanno una bellezza acerba, ma esprimono bene l’atmosfera di disorientamento e fragilità che li pervade. Jay Gummerman ha il senso del dettaglio, indispensabile per cogliere i momenti sfuggenti di un incontro occasionale, in un party, durante un appuntamento, un arrivederci, un addio. Esemplare, in questo senso, il racconto da cui prende il titolo l’intera raccolta: Ci troviamo a Moontown descrive l’evolversi di un furtivo rendez-vous tra il protagonista, Keepnews e un marinaio, che da lì si ritrovano sulla strada, senza destinazione, contando sul fatto che “l’unico vantaggio del viaggiare era che nessuno sapeva chi eri”. La fuga non è casuale, anzi, è spesso una soluzione quando ti accorci che “per anni e anni nella tua vita non succede niente, e poi, di colpo, ti ritrovi in questa nuova merda che ti travolge, e non riesci neanche a ricordarti cosa era capitato prima nella tua vita. E non sei preparato ad affrontarla, questa nuova merda. Hai solo un sacco di tempo per pensarci, prima che arrivi”. È un tema comune a tutti i personaggi, a volte svolto attraverso il riflesso del paesaggio, come avviene con Il pittore (“Erano gli ultimi istanti del crepuscolo, quando si può veramente vedere il mondo cambiare colore, era il momento in cui la luce svanisce con tanta rapidità da far pensare che debba far rumore”), altrimenti archiviato con disincanto come ammette il protagonista in Il faro: “Cerco di non pensare al futuro, finché sarà troppo tardi, finché non sarà più il futuro”. Questa friabile natura dei personaggi si riflette via via nei racconti, che restano sospesi, indefiniti, sfocati. Può succedere che siano avviati da un incipit folgorante, quello di Il nascondiglio di Fred, in cui il protagonista debutta così: “Quel che vorrei fare veramente è incidere il mio album, e una volta finito, questa frase non la concludo mai perché non riesco assolutamente a pensare a quel che viene dopo. Della grammatica inglese ti dicono assolutamente tutto, dove va la virgola, dove la congiunzione coordinativa, o perché quella è una proposizione dipendente retta da un avverbio, eccetera eccetera, ma non ti dicono mai cosa dovresti fare quando hai esaurito gli argomenti. Coordinare, ti dicono. Giusto per farti star male, come se uno non stesse già male abbastanza”. Brillante, sincopato, preciso, ma poi il racconto scivola via malinconico, come l’adolescenza che sfuma senza colpo ferire e non diversamente succede a Richard e Claire, titubanti e chiusi in una stanza in Da Pinocchio, a Philip e Rebecca che imitano Lauren Bacall e Humphrey Bogart con La cinepresa, o al un detenuto di L’onore di Russell che, nel corso della sua evasione, torna dalla sorella che lo accoglie puntandogli contro una pistola. A quel punto è fin troppo evidente che i disperati di varia forma e sostanza di Ci troviamo a Moontown hanno perso la bussola e così il protagonista di La Lega del Carciofo commenta la distanza i luoghi e un’idea molto friabile di casa: “Viene da chiedersi quanti posti così ci siano al mondo, piccoli posti insignificanti dove la vita di alcune persone è cambiata per sempre, posti davanti ai quali si passa ogni giorno senza neanche accorgersi che esistono”. Neanche una Los Angeles brulicante di luci e di ombre, in Una foresta poco importante, riesce a conquistare un ritaglio di emozione. In un sottobosco di piccoli spacciatori, annoiati al punto di pensare che “la televisione però un vantaggio l’aveva, con la televisione poteva anche venire a patti, il bello della televisione era che aveva una spina”, un gruppo di sbandati si ritrova a vedere il mondo ribaltato, mentre l’incidente della realtà li circonda, inalterato e imperterrito: “Gli alberi e tutto il resto puntavano verso il cielo, che era indecifrabile così come lo ricordava: le nuvole, come la neve, erano una distesa senza contorni”. Ecco, leggendo Ci troviamo a Moontown, si prova proprio la stessa sensazione.
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