martedì 16 aprile 2019

Amy Hempel

Una costellazione di personaggi in fuga o incastrati sulla soglia, gente che si concede al massimo tre minuti per decidere se restare o partire, per poi fermarsi a metà strada tra matrimoni e separazioni con il timore di rivedersi perché “questo è il problema con la maggior parte delle persone: ti tocca incontrarle”. Amy Hempel è un’osservatrice acuta, a tratti impietosa, di una precarietà dominante che uno dei protagonisti di Questa sera è un favore a Holly riassume con una frase esemplare: “Vivendo qui, ti dimentichi che se hai smesso di affondare non vuol dire che non sei più sott’acqua”. Una condizione provvisoria e limitata condivisa in tutti i racconti di Amy Hempel radunati in Ragioni per vivere e che non viene risolta nemmeno dalle fughe e dai viaggi: in Andare, la protagonista guida con il binocolo per vedere come “le cose appaiano al contempo in due modi, lontane e vicine, mentre tu rimani sempre nello stesso posto”, mentre in Gesù sta aspettando (proprio come canta Al Green nello stereo) l’itinerario è un’optional e ogni tappa è l’occasione per dialogare a distanza con l’altro, spedendo una cartolina o lasciando un messaggio sulla segreteria telefonica. L’ultimo appunto, prima di ricominciare a guidare recita: “Possiamo accoglierci a vicenda?”. L’interrogativo non è insolito per Amy Hempel, anzi, a volte è la sigla finale (Il centro si chiude proprio con un punto di domanda) e, più spesso, è lo snodo dei racconti dove “le cose succedono, oppure smettono di succedere, e chi sa dirti perché?”, come si chiedono in Il Gesù che respira. Via via che ci si inoltra nelle Ragioni per vivere, il quesito si fa più stringente e in una delle storie più rappresentative, Il limbo, Amy Hempel si e ci interroga così: “Chi sceglierebbe di vivere meno?”. La risposta non è del tutto ovvia:  arrivati in fondo, si resta sorpresi perché non c’è mai una chiusura, non c’è mai un vero finale. I racconti di Amy Hempel non sono appaganti, non corrispondono a nessuno standard, lasciano in sospeso l’intera trama, ma per quanto siano spalancati su ogni possibilità e lascino ampio spazio al lettore, non concedono nulla. Il senso di insoddisfazione è latente e crescente, ma l’effetto non è comunque monco o limitato: Amy Hempel scrive senza trucchi, senza artificiosità e i racconti, spesso di un paio di pagine (a volte di una manciata di righe) sono istantanee che non lasciano scampo sia davanti a situazioni innocue e gioiose (anche se la felicità è il punto di domanda più grosso per Amy Hempel) sia in occasioni drammatiche (se non brutali, compresi gli stupri in La casa sulla scogliera). I cambi di registro sono insoliti e spiazzanti e l’insistente presenza degli animali (i cani, in particolare) è un contrappunto alle idiosincrasie degli esseri umani, alle fratture e alle divisioni, e in definitiva alla loro fragilità, che si manifesta nel continuo intersecarsi dei ricordi e del presente (determinante in Rientrata) dove la scrittura di Amy Hempel si fa densissima (fin troppo a volte). I dettagli affiorano in primo piano, quasi dissimulando (o mascherando) la trama con uno stile rarefatto, scorticato più che levigato, tutto votato a evidenziale “l’alone di una realtà inesprimibile... E tuttavia lirica” come dicono in Offertorio. L’ultimo racconto di Ragioni per vivere è l’apoteosi della narrativa di Amy Hempel. Se “una storia d’amore comincia con un’illusione” secondo uno dei personaggi di Il cane del matrimonio, in Offertorio quest’intuizione viene estrapolata celebrando un’ossessione che parte dal guardare corpi che si fondono per arrivare a raccontarli, interpretando, omettendo, deformando i particolari come se la realtà del ricordo così come quella del presente venissero ricostruite attraverso le parole. Un tentativo reiterato, insistito ed estremo, volendo anche disincantato, di fronte alla sua inefficienza perché, come si evince nell’unica ammissione (non a caso, ancora in La casa sulla scogliera) di Amy Hempel, “tutti noi dovremmo essere al sicuro dentro un sacchettino di velluto”, mentre fuori imperversa quell’incidente che è la vita.

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