Ruota ancora tutto intorno al diner del deserto, come se fosse il centro di un gorgo di polvere, dove le storie vengono inghiottite, non meno delle speranze. Nel corso di una sosta in una stazione di servizio, a Ben Jones viene affidato un bambino e, dato che il riassunto della sua filosofia è che “siamo i guai che ci andiamo a cercare”, la cabina del suo camion si trasforma in una specie di asilo nido viaggiante visto che si ritrova anche Annabelle, la figlia di Ginny, già protagonista della puntata precedente. La sua disponibilità dovrebbe garantire una soluzione provvisoria, questione di ore, ma gli spazi del deserto tendono a rendere il tempo più circolare che lineare. Intanto, il predicatore che si accolla la pesante croce di legno lunga la 117 viene investito e altri mezzi sfrecciano noncuranti, compreso un autoarticolato che ricorda da vicino la minaccia incombente di Duel. Le destinazioni restano in gran parte ignote: come dice uno dei protagonisti di Lullaby Road, “a volte la gente imbocca questa strada e arriva fin qua solo per trovare quello che cerca, anche se non c’è”. Primo fra tutti, Ben Jones, che coltiva ancora un senso per la giustizia, anche se la sua fedina penale e le cicatrici sulla pelle raccontano una storia incongruente con quella di un ipotetico eroe. Ma deve aver ascoltato Dylan cantare che devi essere onesto, se sei un fuorilegge, e in Lullaby Road s’imbatte in un feroce traffico di bambini che ha coinvolto “uomini e donne, ma soprattutto uomini, che invece di servire Dio avevano creduto di essere Dio, seguiti da gente che non vedeva o non voleva vedere la differenza”. Non sono gli unici colpevoli: la dissoluzione di valori elementari, per non dire primordiali o istintivi, parte da una frattura abissale con l’habitat naturale. Quando James Anderson, attraverso Ben Jones, dice che il deserto è “un’incognita familiare” forse non si accorge dell’ambivalenza della definizione. La dispersione dei legami combacia con l’ostilità del deserto e James Anderson approfondisce la figura di Ben Jones mettendolo al centro di un corollario di figure enigmatiche e tormentate. Ci sono personaggi come Dan Brew che è il ritratto di Harry Dean Stanton in Lucky, visto che lo accoglie “con un accappatoio sporco, senza cintura, senza maglietta o altri indumenti che non fossero un paio di slip aderenti bianchi, ormai neanche troppo aderenti e ben lontani dall’essere bianchi, e un paio di stivali da cowboy consumati che dovevano aver vissuto il loro momento di gloria una ventina d’anni prima”. Oppure si fanno notare (per più di un motivo) i ballerini Ginger e George e le signore di Los Ojos Negros che distribuiscono burrito, custodiscono segreti e (chissà) sono streghe del deserto, e, infine, i fantasmi del diner che continuano a fare capolino. Ci sono pazzi e disperati di ogni forma e genere perché “la follia è forse la malattia più contagiosa del mondo” e alimenta un senso di pericolo imminente: tutti hanno un’arma da fuoco e “se c’è una pistola, la ragione vola via dalla finestra o comunque si avvia verso l’uscita”. Per non dire dell’immensa solitudine, aumentata in Lullaby Road dalle condizioni invernali con colori drappeggiati come in un acquerello di Georgia O’Keefe. Per Ben Jones lo scenario circostante è la lavagna dove elencare quei pensieri che spesso sono l’unica compagnia che gli rimane. Il rocambolesco sommarsi degli eventi lo porta al limite (anche un po’ oltre): facendo avanti e indietro sulla 117 tra Price e Rockmuse si ritrova a scontrarsi con il suo passato, consapevole che “la merda prima o poi viene a galla, e se le nuoti incontro le possibilità che ti sommerga non possono che aumentare. Sfortunatamente, su quel tema, come sul farmi gli affari miei, avevo ancora molto da imparare”. Il deserto è implacabile: non è solo “uno spettacolo di resistenza”, è anche il capolinea a cui sono destinati i relitti della decomposizione di uno o due secoli e se già era facile notarlo con Il diner del deserto, è ancora più evidente in Lullaby Road. Ben Jones è un modernissimo Don Chisciotte a cui hanno tolto anche i mulini a vento, lasciandogli soltanto paure artificiali, nemici invisibili e frontiere che si restringono ogni giorno di più. Se in Lullaby Road si cammina parecchio è perché i mezzi meccanici nel deserto soffrono come e più degli esseri umani e nel bel mezzo del suo viaggio al termine della notte di Ben Jones confessa che “ci raccontiamo sempre qualche bugia”, ma in un mondo dove la verità è scomparsa, non solo sono peccati veniali, ma indispensabili strumenti nella lotta per la sopravvivenza.
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