mercoledì 7 dicembre 2016

Denis Johnson

Mostri che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze, “la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001, ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando “correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio. Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni, ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione. L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte, e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger, portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione, prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che non ha più nulla di umano.

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