lunedì 28 novembre 2016

Mark Strand

Quando Un poeta legge un pittore la domanda è: “Come mai troviamo così difficile dare un senso a quello che vediamo?”, e il tentativo di rispondere in Edward Hopper, è in una disgressione geometrica, filosofica e, soltanto alla fine, narrativa. Mark Strand distingue trapezi, piani, e linee facendo notare come “l’uso reiterato di alcune figure geometriche, che hanno un’influenza diretta sulla reazione che l’osservatore probabilmente avrà” è una prassi  con cui “una geometria pittorica stimola un’azione opposta a quella che la narrazione dispone”. In questa contraddizione di termini c’è gran parte del fascino della pittura di Edward Hopper, perché come nota Mark Strand osservando uno dei suoi dipinti più famosi, Nighthawks, “un punto di fuga non è soltanto il luogo in cui s’incontrano linee convergenti, è anche il luogo in cui noi cessiamo di essere, la fine di ciascuno dei nostri viaggi individuali”. Anche nei soggetti ricorrenti in Edward Hopper, “le strade e le ferrovie, i luoghi di passaggio e quelli di sosta temporanea, in termini più generali, i luoghi del viaggio”, la dimensione è ambivalente e Mark Strand sa intravedere in quel  “mondo colto al volto, di passaggio”, “immobile” nella sua essenzialità, una visione “senza di noi; non solo un luogo che ci esclude, ma un luogo svuotato di noi stessi”. E’ davvero lì, nell’istante ricavato tra la luce e le ombre, che la grandezza del poeta e del pittore s’incontrano e quei “momenti del mondo reale, di cui noi tutti abbiamo esperienza, sembrano per mistero trasportati fuori dal tempo. Ad esempio il mondo visto di sfuggita da un treno, o da un’auto in corsa, rivelerà la scheggia di una storia che forse cercheremo, o forse no, di completare, ma i cui echi suggestivi ci commuoveranno comunque, rendendoci consapevoli della natura frammentaria, fuggitiva persino, delle nostre vite”. I frammenti di stanze, finestre, corpi e paesaggi e tutto quello che resta sospeso lasciano aperte molte ipotesi per l’osservatore, e Mark Strand ricorda come “quello che sentiamo sarà soltanto nostro. La negazione del viaggio, insieme al nostro senso di perdita e alla nostra assenza transitoria, prospererà”. Eppure, la narrazione dei quadri è rispettosa, limitata alle impressioni e alle forme, senza l’aggiunta di particolari speculazioni, deduzioni o divagazioni. L’arte di Edward Hopper rimane “un universo a sé stante in cui il suo mistero rimane intatto”, è il suo riflesso a colpirci, così come “il silenzio che accompagna il nostro guardare sembra accrescerci. Ci turba. Vogliamo andare oltre. E qualcosa ci spinge a farlo, nell'attimo stesso in cui qualcos’altro ci costringe a restare fermi. Ci pesa addosso come solitudine. La distanza tra noi e ogni altra cosa aumenta”. Quella racchiusa nelle due dimensioni della pittura di Edward Hopper è “una lacuna ombreggiata non tanto dagli eventi di una vita vissuta quanto piuttosto dal tempo prima della vita e dal tempo susseguente”, ovvero un momento magico protratto nel tempo e di cui “noi siamo i privilegiati testimoni”. L’effetto porta alla dimensione superiore, dove la considerazione inevitabile tocca “il problema dei nostri rapporti con il tempo: cosa ce ne facciamo del tempo e cosa il tempo a noi?” Se la domanda iniziale toccata più il pittore, quella conclusiva è di pertinenza del poeta: se in Edward Hopper intravede quella “struttura formale in grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento inspiegabile delle nostre vite”, la risposta  tocca ancora a chi guarda, incantato, perché, “noi pure desideravamo qualcosa oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi, oltre quanto sapevamo immaginare, qualcosa in cui nondimeno potessimo riconoscerci”. Questa è l’arte, questa è la poesia.

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