martedì 30 agosto 2022

Hernan Diaz

In una scena di Margin Call, un film del 2011, l’onnipotente John Tuld, interpretato da Jeremy Irons, ben appostato al ristorante in cima al palazzo, elenca le crisi finanziarie che hanno distinto il mercato azionario americano (e mondiale) e la lista comprende, come non potrebbe essere diversamente, anche il tracollo del 1929. Tra le apocalissi del capitalismo è quella che forse ha tracciato un modello di riferimento ed è l’ossessione di Andrew Bevel, e della moglie Helen, le figure centrali di Trust che vengono riscritte e rilette secondo una costruzione della realtà doppia e tripla e seguendo il principio per cui “il futuro irrompe in ogni momento, vuole rendersi attuale in ogni nostra decisione, cerca, per quanto possibile, di diventare passato. Questo è ciò che distingue il futuro dalla semplice fantasia. Il futuro accade”. È il motivo per cui Trust contiene un libro dentro l’altro: un gioco a incastri, farcito di chiavi di lettura che distinguendosi, si sommano. Il paradosso è funzionale alla costruzione del romanzo, anche se i trucchi vengono a galla e si notano, perché il limite congenito di Trust è evidente. Viene spiegato tutto e il tono, nonostante l’architettura, intrigante resta monocorde. O, meglio, ogni passaggio è costruito, fin troppo, senza una singola scintilla. Senza dubbio, Hernan Diaz ha una sua proprietà nella scrittura, costruisce un tassello dopo l’altro e riesce a dare forma a una struttura narrativa che contempla almeno quattro livelli di lettura: la storia della vita di Andrew Bevel secondo la sua stessa visione, quella apocrifa scritta da Harold Vanner, il punto di vista di Ida Partenza e quello della moglie Mildred. L’ordine è relativo, Trust resta impegnativo comunque lo si giri: fino a metà romanzo non c’è un dialogo che sia uno, e dove cominciano ad apparire sono riportati, e quindi di seconda mano. C’è una logica in questo, perché è assolutamente vero che “l’autorità e il denaro si circondano di silenzio, ed è possibile misurare la portata dell’ascendente di qualcuno dalla densità dell’assenza di suoni che lo avvolge”, ma lo stile rimane ancorato a frasi brevi, meccaniche, funzionali esclusivamente al ritmo e ai cambi di prospettiva. Solo la parte dedicata a Ida Pazienza (con il racconto della prova per diventare impiegata di Bevel come apice) e agli anarchici (almeno qualcuno si ricorda di loro) è un po’ più vitale, anche se l’atmosfera resta piuttosto fredda. Per esempio, viene nominato, en passant, il caso Sacco e Vanzetti, ma si perde nel contesto di altre mille associazioni. Del resto Trust è pervaso da un certo moralismo, come se non conoscessimo il rischio di una scommessa economica, sintetizzata nella battuta che “c’è un mondo migliore ma costa di più”. L’aspetto finanziario resta comunque una premessa fondante, l’ossessione per la crisi del 1929 e le sue conseguenze, uno degli apici del capitalismo (così come tutte quelle che sono seguite), sottintende un aspetto che va oltre la dimensione del mercato, quasi una ricerca (almeno per chi ci crede) di “una forma impersonale di bellezza”. Nell’ambizione di Trust la sfida non è solo quella: sapendo che “le aspettative e le richieste del lettore esistevano proprio per essere intenzionalmente confuse e sovvertite”, Hernan Diaz non nasconde i suoi intenti e lo schema è ben congegnato nel provare a spiazzare e a disorientare e a stupire, ma si rivela abbastanza prevedibile (sì, c’è  anche la sorpresa finale), senza particolari emozioni e nessuna novità di rilievo. Tra l’altro, in quella che dovrebbe essere una sequenza fondamentale, Andrew Bevel arriva a identificare la musica come interpretazione matematica (e magica) dei flussi monetari, ma questo lo diceva anche John Tuld in Margin Call.

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