martedì 16 settembre 2014

John Williams

Il viaggio, andata e ritorno, da e per Butcher’s Crossing, cambia gli uomini che partono a caccia di bisonti e alla fine sono costretti a vivere in simbiosi con l’essenza stessa della wilderness. Arriveranno a nutrirsi (solo) di carne di bisonte, a vestirsi con le pelli, persino ad abitarci dentro, dopo averne sterminato un’intera mandria in una valle sperduta nelle montagne del Colorado. Resisteranno a tutte le intemperie (o quasi), fino a quando non dovranno fare i conti con la tempesta più imprevedibile, la legge del mercato, della domanda e dell’offerta, trascinata dall’arrivo della ferrovia che sta trasformando per sempre l’America. Siamo nel  1873 e William Andrews arriva a Butcher’s Crossing con l’idea di verificare la bellezza e la crudeltà della wilderness, nonché le leggende e i miraggi prodotti dalle corse verso il West. Nell’organizzare la sua spedizione, assembla un quartetto che è caratteristico nell’elencare le tipologie dei personaggi. Charley Hoge, alcolizzato, ha perso una mano nel gelo di un’altra stagione di caccia, è un credente devoto ed è il conducente dei carri nonché il cuoco, anche se il menù prevede solo sempre carne secca, fagioli e caffè bollente. Fred Schneider, il migliore macellaio di Butcher’s Crossing, è l’esperto riottoso e taciturno, che vorrà essere pagato con puntualità, anche dove i soldi non valgono niente, ovvero nel bel mezzo di una tormenta di neve. Miller, il cacciatore, è il leader che non si ferma davanti a niente ed è persino visionario nel suo inseguire e cacciare i bisonti. Andrews è il giovane intraprendente che vuole scoprire la verità sul West, sulla natura e sulla vita, laggiù dove albergano “la santità che oscura le nostre religioni, e la realtà che discredita i nostri eroi” come scrive Ralph Waldo Emerson, posto in epigrafe insieme a Melville.  Ad Andrews “la natura gli si era presentata in modo così puro da esercitare i suoi poteri d’attrazione con la forza necessaria per far breccia nella sua volontà, nelle sue abitudini, nelle sue idee”. Il fascino si rivelerà un drammatico abbaglio: la spedizione, trascinata dalla bramosia di Miller si risolverà in un dramma perché cambiano le stagioni e i ruscelli diventano torrenti e i torrenti diventano frontiere invalicabili, e non è finita perché, tornati a Butcher’s Crossing, si ritroveranno in una ghost town. Il racconto di John Williams è rigoroso, il linguaggio è concentrato e “stick to the plan”, davvero aderente alla storia, inestricabile dalla sua essenza americana perché come dice lo scorbutico Schneider “questo è un paese molto grande e di sicuro non c’è proprio niente”. La supremazia della wilderness, che vive i suoi tempi del tutto indifferente ai destini dei viaggiatori, e l’avidità come unica stella polare vengono interpretate da John Williams attraverso un grande romanzo, un affresco molto vicino alla realtà storica e nello stesso tempo valido per ogni altra latitudine. Tambureggiante dall’inizio alla fine Butcher’s Crossing è lirico, maestoso e spettacolare nel mostrare la prospettiva della wilderness che incombe sugli uomini, sempre convinti di essere superiori, sempre disperati nei loro fallimenti.

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