La guerra del Vietnam vista da un patriota americano al di sopra di ogni sospetto: è l’inizio del 1967, il peggio deve ancora venire, e convinto che “le guerre e le voci di guerra si assomigliano tutte”, Steinbeck decide di toccare con mano cosa sta succedendo e recupera le vecchie credenziali di inviato al fronte, convinto di “comporre lo scenario”, così come si presentava ai suoi occhi. La vista inganna più di altri sensi, ma John Steinbeck decide di seguirla: è un osservatore scrupoloso e partecipe e, visto che la guerra si fa con le armi, non solo descrive il funzionamento, i meccanismi, l’uso di fucili, lanciagranate, obici, razzi, mitragliatrici, tutto il potenziale bellico made in U.S.A., ma prova ogni tipo di di mezzo, sale su aerei, elicotteri e barche e partecipa ad azioni, bombardamenti, pattugliamenti. Annota i dettagli con entusiasmo, convinto che “uno scrittore onesto è alla mercé di ciò che vede, ode e sente”. Il coinvolgimento è univoco, e così il suo punto di vista: “Ho cercato di scrivere quello che ho visto, sentito e pensato in questa parte del mondo. Di necessità le mie lettere sono state semplici impressioni, niente di profondo o permanente. Ma sono stato sincero o difenderò le mie impressioni contro le convinzioni granitiche di chi non è mai stato qua”. È un riscontro ambivalente che la sua corrispondenza celebra continuazione. L’obiettivo è esserci e la distanza, anche critica, è tra chi c’è e chi non c’è in prima linea. Anche questa è una riduzione semplicistica, vista la complessità della guerra, ma la concretezza di John Steinbeck non ammette deroghe: “Che nesso c’è fra durata nel tempo e superficialità? A volte lo sguardo veloce e ingenuo di un occhio e di un cervello impreparati e non indottrinati è più penetrante di una lunga esperienza che ha smussato una sfaccettatura, ne ha modificata un’altra, e un’altra ha creato per bisogno, vantaggio o delusione personali. No, la durata nel tempo, cioè l’esperienza prolungata di un luogo o di una situazione, risente dell’umana propensione a far sì che il nostro mondo offuschi o addirittura cancelli ciò che c’è in quel luogo: anche questa è solo opinione, ma per qualche motivo questo tipo di opinione gode di grande rispetto”. La posizione a favore dell’intervento americano è discussa a lungo, ma incespica nelle contraddizioni con la realtà. Steinbeck sembra intuire che qualcosa non va, al punto di accorgersi che “alla fine quaggiù le cose diventano anche personali”. Viaggia anche in Laos, Thailandia e Cambogia, e Indonesia, sulla vita del ritorno. È un testimone acuto e un viaggiatore instancabile, ma gli sfugge l’essenza coloniale o post-coloniale di quelle guerre, la divisione del Vietnam, e riconduce tutto allo schema manicheo della guerra fredda. La semplificazione regge solo nell’immediato e infatti John Steinbeck si concentra sulle impressioni di viaggio, sulle difficoltà ambientali, sulla natura del conflitto finché “viene sempre il momento di fare i conti, e in guerra i conti sono sempre tristi”. Nei suoi reportage c’è tutta la contraddizione dell’intervento che Steinbeck risolve dicendo di non aver celebrato la guerra “ma solo degli uomini coraggiosi” e i passaggi più densi sono quelli dove, più che argomentare, racconta ed evoca l’atmosfera e l’inquietudine sperimentate dal vivo: “Una notte senza azione, fatta solo di attesa, in cui ascolti suoni che non ci sono, e vedi forme che non esistono: una notte così non finisce mai”. L’esperienza resta brutale finché lo stesso Steinbeck confessa: “So quello che voglio dire, ma non so altrettanto bene come dirlo” e deve ammettere che “questa guerra lascia davvero confusi”, e su questo non c’è alcun dubbio. Piccola nota a margine: le lettere dal Vietnam sono indirizzate ad Alicia Patterson Guggenheim, moglie di Harry, editore del Newsday, giornale da quattrocentomila lettori quotidiani. È la corrispondenza con un fantasma, e non è l’unico che popola queste pagine.
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