mercoledì 10 ottobre 2012

Philip Roth

Le Chiacchiere di bottega di Philip Roth con i suoi illustri colleghi e colleghe (Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Primo Levi, Milan Kundera, Ivan Klíma, Mary McCarthy, Aharon Appelfeld, Saul Bellow) hanno una natura camaleontica e si mimetizzano in forme diverse in funzione della natura dell’incontro e dei legami che lo generano. Può essere un semplice scambio epistolare, come la corrispondenza con Mary McCarthy, dove i voli pindarici dei due scrittori si attorcigliano intorno ai dettagli della circoncisione, in una discussione esclusiva e un po’ cerebrale. Il più delle volte le Chiacchiere di bottega nascono da un’idea di intervista che di volta in volta assume profili unici e particolari. L’incontro con Primo Levi, nei meandri di una fabbrica torinese, si evolve in un colloquio analitico. Philip Roth, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è un interlocutore puntuale, scrupoloso e meticoloso, tanto è vero che a precisa domanda, Primo Levi introduce la sua risposta così: “Più che una domanda, è una diagnosi”. Altrove il confronto è più immediato e spontaneo: negli incontri con Ivan Klíma (“A volte dubito che sia ragionevole rimanere in questa miseria per il resto della nostra vita”) e Milan Kundera (“Un romanzo non afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande”) emergono affinità e divergenze e anche una sottile differenza dovuta alle opposte condizioni in cui gli scrittori si sono trovati a proporre e difendere il proprio lavoro. Dalla clandestinità all’esilio, Milan Kundera dice: “Io invento storie, le metto a confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande. La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dall’altra parte Philip Roth sembra rispondergli con una reazione istintiva: “Credo però che anche in una cultura come la mia, in cui nulla viene censurato ma dove i mass media ci inondano di vacue falsificazioni delle questioni umane, la letteratura sia un salvagente, anche se la società non sembra rendersene molto conto”. Con l’ombra incombente di Kafka, il più citato e un punto di riferimento per tutti, le Chiacchiere di bottega si sviluppano nell’intenso ritratto di Bernard Malamud, nella conversazione di New York con Isaac Bashevis Singer a proposito di Bruno Schulz, nel confronto con Edna O’Brien e con Aharon Appelfeld che ha il pregio di sintetizzare un valore comune a tutti, Philip Roth compreso: “Descrivere le cose come sono accadute significa rendersi schiavi della memoria, che nel processo creativo è solo un elemento di secondaria importanza. Per me creare significa ordinare, scegliere e smistare le parole, e trovare il ritmo adatto all’opera”. Le uniche eccezioni sono il ritratto di Guston, pittore che dedicò alcune tavole a Il seno di Philip Roth e la parte conclusiva delle Chiacchiere di bottega  dedicata a Saul Bellow che, più di una rilettura, sembra essere un omaggio, quasi un inchino all’uscita di scena di un grande maestro. 

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