lunedì 22 ottobre 2012

Ray Bradbury

Questa raccolta di Saggi su passato, futuro e tutto ciò che sta nel mezzo, pur nella sua caotica essenza, costruita articolo dopo articolo, rubrica dopo rubrica, “procedendo alla cieca, correndo a perdifiato, buttando giù i pensieri così come arrivano”, e sono parole dello stesso Ray Bradbury, apre uno squarcio vitale sul mondo di uno scrittore e di un lettore unico. Anche se molte selezioni, trapiantate dal contesto originario, dove avevano un senso più specifico e (anche) un’altra vita, appaiono piuttosto distanti o estranee alle coordinate di Troppo lontani dalle stelle, Ray Bradbury è sempre entusiasta ed è questa la componente più rilevante: può essere un incontro (memorabili quelli con Walt Disney o Bertrand Russell e la moglie), uno spunto polemico (e ce ne sono parecchi) o un ricordo e qualche che sia il taglio dell’articolo, del saggio, della rubrica, la sua verve è sempre trascinante, spinta dalla passione, dal gusto, dalla curiosità. I temi sono tra i più disparati: dal trasporto con cui racconta l’essenza americana delle ferrovie in Ogni amante dei treni è mio amico alle descrizioni di Parigi e Los Angelese, “città di quarzo” che Ray Bradbury riassume, per François Truffaut in “quasi ottocento chilometri quadrati di illuminazione metropolitana, un’enorme distesa, un panorama oceanico di energia elettrica”, la prosa è sempre immaginifica, accattivante, immediata. E’ anche molto pungente quando dice che “noi siamo il prodotto finale di fallimenti su fallimenti sfociati in un prodotto finale che è la sopravvivenza dell’uomo” ed essendo Troppo lontani dalle stelle, ormai incapaci di inventare altri viaggi o nuove direzioni, “noi riempiamo il vuoto con la nostra attenzione. Noi vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, sappiamo”. Sarà per quello che Ray Bradbury riscrive i finali dei film (il legame con il cinema è uno dei canali sotterranei che imperversa e annoda le singole parti di Troppo lontani dalle stelle) e combatte con una divorante attrazione per la letteratura: “Kipling, Dickens, Wilde, Shaw, Poe” sono i punti di riferimento e poi Moby Dick (forse più di tutti perché sembra coltivare una venerazione per Melville) e infine Jules Verne con la sua percezione del futuro. Ed è qui che l’americano Ray Bradbury sa essere ancora più eloquente che altrove. L’America, è inutile nasconderlo o cercare di negarlo, è sempre stata l’interprete principale del futuro, il modello proiettato in avanti, il profilo sfuggente e veloce, più veloce di tutti gli altri. Ray Bradbury sembra intuire, capire, conoscere la dimensione fallimentare di quel’avvenire, i retroscena e le parti in ombra, le imperfezioni maledette, le ferite profonde dentro i sogni di gloria. Una visione nitida, chiarissima e tagliente una vera e propria perla scintillante racchiusa nel guscio frastagliato di Troppo lontani dalle stelle. L’opulenza della disperazione: l’America attraverso lo specchio è un capolavoro, un cahier de doléances lucido, duro, preciso e incazzato. Per quello che dice, per come lo dice. 

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