Il mondo degli expat, che vivono un eterno esilio anche quando tornano a casa, è soltanto l’inizio. La distanza tra l’America e il Vietnam viene bruciata in un istante, e non resta nulla. Ospitata dai Cook, che, ossessionati dall’igiene e dalla pulizia, la considerano “una specie di misterioso germe gigante che erano fieri di sanificare”, Winnie non ci mette molto a capire che “l’illusione della sicurezza era un’invenzione dell’Occidente” e si avvia a scoprire che il Vietnam, per lei e per chi legge, sarà un viaggio nel tempo che disorienta, avvolto in una sorta di nebbia onirica e ipnotica (e alcolica, anche) e distinto da una profonda precarietà. Dal cibo (una costante in tutte le salse, non solo metaforiche, anzi) al sonno, dalla pioggia alla viabilità, tutto è fluido, instabile e sfuggente e scorre secondo schemi impropri e un serrato accavallarsi di flashback. Attraverso Winnie, che dovrebbe insegnare inglese, ci si inoltra in un groviglio di trame che tendono a intrecciarsi con un brulicare di vite umane, animali e persino vegetali a cui Violet Kupersmith fornisce una voce con una scrittura densa e palpitante che non teme di offrire una presenza raziocinante anche a cani, maiali, topi e (parecchi) cobra (compreso uno, anzi una, a due teste). Sì, succedono molte cose strane nel Vietnam di Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, ma non per via della flora o della fauna. C’è un contrasto stridente tra l’esistenza corporea e la componente onirica, o fantastica: ci sono secrezioni, odori, parti umane descritte fino ai minimi dettagli (e oltre) e, come un riflesso distorto, immagini che fluttuano eteree e inafferrabili. La stessa, “labirintica”, Saigon pare soltanto uno sfondo teatrale per i personaggi che si incrociano nell’ombra, e ancora di più quando ci si avventura negli Altipiani. Se Winnie è la connessione con il mondo occidentale, i cascami coloniali sono dietro ogni angolo. Una scena con i francesi Gaspard Valentin Renaud, Jean-Pierre Courcoul e Louis Lejeune alias “l’Anguilla” è un salto temporale di 69 anni proprio nel mezzo del romanzo e ricorda da vicino la famosa sequenza tagliata di Apocalypse Now. Un segmento grezzo e deviato, uno dei tanti in un gorgo che via via si porta dentro tutto: il sesso, la corruzione, la decadenza e una violenza strisciante. Una visione del Vietnam che si snoda proprio come le spire degli onnipresenti serpenti, che hanno un ruolo da protagonisti. Tutto è plausibile, compresa la trasformazione degli esseri umani in forme mutevoli, che sarebbero piaciute un sacco a Ballard, e la transizione biunivoca con gli animali o il ruolo del fumo, che si presenta come, un’essenza, un ectoplasma ed è il più eclatante tra gli elementi sovrannaturali che costituiscono la parte più originale e sorprendente del romanzo. Persino l’ambiente si muove, un paesaggio lussureggiante che vive di vita propria, a partire dalle foreste degli alberi della gomma dove è necessario possedere delle facoltà divinatorie per districarsi tra i misteri che affollano i filari. La scomparsa di Winnie (e non è l’unica) è l’enigma sottinteso dall’esordio di Violet Kupersmith e sviluppa una rete che intrappola il lettore in un dedalo kafkiano di metamorfosi e inquietudini inzuppato fradicio nelle leggende, nei riti e nelle fantasie ancestrali vietnamite. Le squame della storia compongono una pelle sgusciante, viscida e urticante che vede nel corpo femminile una preda e nello stesso tempo una tana per i fantasmi di cui brulicano tutte le storie. Non solo quella di Winnie, ma anche quella di Binh, Tan, Long, Odile, di volta in volta compresse nelle contorsioni della vendetta, che arriva a sorpresa, dopo una lunga, meticolosa preparazione in un vorticoso finale, degno di uno dei romanzi più visionari, originali e sorprendenti degli ultimi anni.
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