L’intervento multinazionale in Somalia del 1993 fu un disastro su più piani, l’ultimo dei quali, quello militare, si rivelò fatale. A Mogadiscio o Moga come lo chiamavano gli americani, finirà in un massacro e la storia è un po’ più complessa di come è stata semplificata in Black Hawk Down di Ridley Scott, tratto proprio dal reportage di Mark Bowden: c’erano stati attacchi precedenti, con un uso smodato della forza e degli elicotteri e numerosi “danni collaterali”, ovvero vittime civili. C’erano state operazioni sanguinose, ma infruttuose, e, più in generale, l’aria era ammorbata dalla frustrazione per il senso d’impotenza da parte dell’esercito più grande al mondo. Il disastro, non il primo e neppure l’ultimo partorito in queste condizioni, era dietro l’angolo, e non soltanto metaforicamente. Mark Bowden fa un grande lavoro di ricerca, anche dove i segreti e l’oblio sono stati spesso un muro invalicabile, con l’intenzione dichiarata di “unire la precisione di una descrizione storica, con l’emozione delle memorie, e scrivere un racconto che si leggesse come un romanzo ma che fosse vero”. Di questo bisogna dargliene atto, anche se non tutte le valutazioni e le celebrazioni della forza militare devono essere per forza condivisibili, anzi (e lo ammette pure Mark Bowden, alla fin fine). La ricostruzione però è meticolosa, tiene presente i un quadro d’insieme credibile, non dimentica le posizioni somale, così come tutta la controversa situazione creata dagli americani. Mark Bowden sa come mettere a fuoco un aspetto alla volta e nello stesso tempo sa lasciare al racconto l’opportunità di passare dal particolare al generale, dalle emozioni alle sottili distinzioni di “tecniche, tattiche e procedure”. Il suo lavoro, che si basa una quantità di fonti primarie, è enorme e specifico, eppure riesce sempre a ricondurlo all’essenza della storia. Da ottimo reporter, non nasconde nulla: le indecisioni politiche, l’aggressività dei ranger, la visione da Far West del generale Garrison, il caos in un’antica città africana trasformata in un campo di battaglia, gli effetti devastanti della moderna tecnologia bellica, gli intoppi della missione, i morti americani (diciotto) e somali (centinaia), le divisioni tra i clan locali e le incongruenze delle “buone intenzioni” occidentali. Da un punto di vista narrativo, la contraddizione più grande che emerge dal resoconto di Mark Bowden riguarda le vite e i profili dei soldati. Quella che chiama “una storia vera di uomini in guerra” è l’occasione per ricostruire le peculiarità distintive dei protagonisti dell’incursione, in particolare, come è logico dei caduti. Le identità, dalla famiglia alla scelta di approdare alla carriera militare, dalle caratteristiche fisionomiche ai tratti caratteriali trovano ampi spazi nella ricomposizione di Mark Bowden che pare però tralasciare un dato di fatto fondamentale, ovvero che l’inquadramento militare, in particolare in unità d’élite come quelle che operarono a Mogadiscio prevede una ristrutturazione standard della personalità e un inquadramento fatto di disciplina e di catene di comando lungo le quali la responsabilità personale viene diluita. Come ha ammesso lo stesso Mark Bowden, il suo “contributo è stato quello di trasformare in parole l’esperienza di combattimento, attraverso gli occhi e le emozioni dei soldati coinvolti, mescolando la loro prospettiva umana con una visione militare e politica della loro difficile situazione”: un passo decisivo per arrivare a comprendere “un’ulteriore lezione di quanto l’impiego della forza abbia i suoi limiti”. È un eufemismo e dato che “a Washington il solo odore del fallimento è sufficiente a produrre una diffusa amnesia”, il risultato finale è che “il loro combattimento non è stato né un trionfo né una disfatta, semplicemente non importava a nessuno”. Per inciso, l’età media dei guerrieri era diciannove anni.
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