“Siamo onesti, e ammettiamo che la poesia, nella espressione più alta, sazia pochi appetiti profondi nell’epoca moderna. Ma l’apparizione in mezzo a noi industrializzati di un uomo senza astuzia o fini politici o consorteria, che si prodigava per diventare saggio e santo, fu per molti una sorprendente, anacronistica gioia per l’anima”: è il ritratto dedicato da Kurt Vonnegut ad Allen Ginsberg e Bloodsong ne celebra proprio gli esordi, che sono sempre difficili. La composizione, piuttosto traballante, ma non priva di una sua logica, è stata assemblata da James Grauerholz, un tempo complice e factotum di William Burroughs. In un beato disordine, sfilano appunti dei diari giovanili, trascrizioni di sogni, schegge dell’infanzia (“La maggior parte delle persone passa metà della propria vita creando ricordi e l’altra metà ricordandoli. Così facendo, ne creano di nuovi”), letture e poesie, discussioni con Lucien Carr e corrispondenze con Jack Kerouac, nonché le lettere d’addio nell’evocazione di uno o più suicidi, per fortuna rimasti senza seguito (arriverà un omicidio, invece). Molti di questi frammenti non superano l’enfasi adolescenziale (“Quanto sarebbe meglio essere astuto e saggio, essere Socrate e comprendere tutto questo perfettamente, capirlo sempre di più e poi mandarlo al diavolo”), anche se Allen Ginsberg sfoggia già una vocazione ammirevole: “Seguendo il desiderio del mio cuore, vedo la ragione per foggiare un’arte futura con la politica. Allo stesso tempo porto avanti fino ai limiti le mie capacità i miei desideri artistico-consci di espressione di sé creativa e selettiva”. Si convince “come tutte le persone tristi”, di essere un poeta e si dedica all’osservazione dei suoi sodali, come la digressione su Lucien Carr, che contiene già pesanti indizi per l’immediato futuro, visto che “è stranamente limitato da repressioni subliminali che razionalizza, in modo abbastanza inconscio, e da cui trae vantaggio. Dichiara di essere annoiato da me, dai luoghi, dalle cose. Un artista ipersensibile non lo sarebbe”. D’altra parte in coda a descrizioni delle attività e delle passioni letterarie di Burroughs, Allen Ginsberg sostiene: “In quanto artista mi propongo di estrarre una serie di valori dall’accozzaglia di contraddizioni. Vorrei vedere la bellezza in ciò che non ha cura per la bellezza e la verità in un universo troppo complesso per essere semplificato in apoftegmi. Desidero plasmare il significato strappandolo alla confusione, unificare i miei desideri, capire le mie passioni e dirigerle anziché esserne diretto. Cerco i valori”. Quasi a voler confermare i suoi intenti, a breve distanza, annuncia: “Sto scrivendo un romanzo naturalista-simbolista. Se un particolare è semplicemente disgustoso e osceno non trova posto nel romanzo. Se l’oscenità delle azioni o dei moventi rappresenta qualcosa di importante al di fuori di sé, se diventa uno sfondo necessario: in breve, se è un simbolo, la uso. Confido che i fatti naturali abbiano un significato universale”. The Bloodsong resta incompiuto, così come gran parte di quei giorni acerbi: quello raccontato da Allen Ginsberg è solo un comitato bohémienne, con molti grilli per la testa (“Stiamo seduti a fissare lo specchio dell’arte, affascinati dalle nostre stesse deformità”) e poco più, insieme alla spericolata frequentazione dei bassifondi di New York e all’assassinio di David Kammerer da cui si dipaneranno le triangolazioni acute tra Burroughs, Kerouac, Ginsberg che cambieranno la posta in gioco e daranno forma alla Beat Generation. È cominciato tutto lì.
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