In uno dei tanti e inequivocabili passaggi raccolti da Matthew Desmond, qualcuno dice: “Siamo in America, qui”, come a ricordare i valori fondativi della terra dei sogni e delle speranze, delle libertà e delle opportunità, ma qualcosa è andato storto. E non poco, se anche la casa è diventata un miraggio e “i quartieri urbani sono mercati, in gran parte di proprietà, nel caso dei quartieri popolari, di coloro che non vivono all’interno dei loro confini”. La creazione dei ghetti e più avanti dell’idea di “slum perpetuo” risale agli inizi del ventesimo secolo ed è lì che Matthew Desmond segue i proprietari (in particolare Sherrena e Tobin) e gli affittuari (Patrice, Arleen, Doreen, Vanetta, Crystal, Scott) che si consumano in un legame biunivoco, un rapporto complesso e distorto, che ruota attorno all’esigenza primaria di un tetto sopra la testa. La povertà americana che Matthew Desmond lascia emergere non ha una collocazione morale: ci sono traslochi che fono fughe, sfratti che sono violenze, leggi che non sono giustizia, scarichi intasati e frigoriferi vuoti, caravan e topaie. La cornice è Milwaukee e per qualcuno “sembrava che l’intera città venisse sbattuta fuori”, ma è facile intuire che valga per ogni altra località american dove il futuro resta un’incognita. Il reportage di Matthew Desmond porta a galla mutazioni e vessazioni sociali che nemmeno la famiglia di Tom Joad poteva immaginare, ma qui a subirne le conseguenze sono sopratutto gli afroamericani: “Se il carcere era arrivato a caratterizzare la vita degli uomini dei quartieri neri poveri, lo sfratto stava modellando la vita delle donne. I neri poveri venivano sbattuti dentro. Le donne nere povere venivano sbattute fuori”. Se a logica dei proprietari è semplice (“Non sperare. Scrivi l’assegno”) violenze domestiche, gioco d’azzardo, dipendenze, disoccupazione e delinquenza alimentano un ciclo quotidiano di azioni e reazioni che vede uomini e donne (le donne, soprattutto) lottare per la sopravvivenza, invischiati in cause legali, regole scritte e non scritte dell’assistenza, prevaricazioni e deviazioni che arrivano fino agli scambi sessuali in cambio dell’affitto. La prospettiva di “un’equità abitativa” è una chimera e le possibilità di un cambiamento sono limitate, tanto è vero che gli inquilini di un parcheggio di caravan esprimono così tutta la loro disillusione: “Il nuovo management avrebbe instaurato un nuovo sistema, un modo più limpido, più professionale e più giusto di gestire il campo. In altre parole, le cose stavano per peggiorare”. Annota, di nuovo, Matthew Desmond: “Una comunità che vedeva così chiaramente il proprio dolore faceva fatica a cogliere le proprie potenzialità”, e questo perché come spiegano bene Frances Fox Piven e Richard Cloward “un movimento di protesta emerga dai traumi della vita quotidiana, le condizioni sociali che vengono normalmente considerate giuste e immutabili devono arrivare ad apparire ingiuste e mutabili”. L’ingerenza dei mercati, la vocazione alla competitività e all’aggressività, e i limiti di un welfare approssimativo diventano il brodo di coltura di subdole forme di segregazione e, di sicuro, limiti tanto invisibili quanto concreti alla ricerca della felicità, un mito tutto americano che qui naufraga una volta di più. Matthew Desmond supera il ruolo dell’etnografo e dell’antropologo, sceglie di vivere nei ghetti e nei campi di caravan per comprendere fino in fondo la realtà di “miseria e profitti nelle città americane”. Un lavoro sul campo, di testimonianza e di ricerca, di esperienza e analisi che gli ha lasciato scorie difficili da smaltire perché “la cosa più difficile per chiunque lavori sul campo non è entrare; è andarsene. E il dilemma etico più difficile non è come rispondere quando ti chiedono aiuto, ma come rispondere quando te ne danno tanto”. Un libro da affrontare con la giusta predisposizione e una bella dote di pazienza, ma che si porta dentro l’amaro sapore della verità.
Nessun commento:
Posta un commento