Crazy Cock è la dimostrazione plateale di quello che sosteneva Ballard, ovvero che “nelle pagine di Miller scorreva l’ozono del sesso, e la sua prosa possedeva un’energia affamata di vita”. Ispirato da tratti autobiografici, a partire dalla fuga della prima moglie, Crazy Cock è un delirio inarrestabile, con Henry Miller alle prese con le capriole di Hildred e Vanya e del suo alter ego Tony Bring, dentro una New York senza respiro: “Nella strada si soffocava per il gas che usciva dalle fogne. Fabbriche di cemento, baracche in rovina, notturni di bucati stesi a asciugare. Una bohème triste, sporca, desolata. Gli dolevano le ossa e un limo diluito e nauseante si spandeva sui suoi pensieri. Quel gas mefitico. Gli puzzava il cervello. A puzzare era il mondo intero”. L’apoteosi è tra Natale e l’ultimo dell’anno, e “una città, si disse, è come un universo, ogni isolato una costellazione vorticosa, ogni casa una stella fiammeggiante, o un pianeta estinto”: la rocambolesca triangolazione (dividono anche il letto), condita da una nuvola alcolica, è destinata a disintegrarsi, come è stato anche nella realtà perché, come ammette Tony Bring, “quella storia era a un tratto diventata troppo stupida. Come tre biglie su un tavolo da biliardo”. È tutto inutile, la forma geometrica è già imperfetta, ottusa e spigolosa e i personaggi poi sono predisposti al caos almeno quanto Henry Miller ad abbandonarsi alla scrittura. In più c’è l’effervescente e instabile ambiente del Village dove si svolgono gli psicodrammi: donne e uomini che si inseguono e si intrattengono tra segreti, misfatti, amplessi e piagnistei “tutti sulle spine. Tutti di pessimo umore, permalosi, nevrastenici, irritabili. Ipersensibili. Come un uomo che si lagna di avere i piedi freddi dopo che gli hanno amputato le gambe”. Passo dopo passo diventa evidente che “era in corso una lotta. Stavano lottando tutti insieme: lottando gli uni con gli altri, lottando con se stessi, lottando disperatamente per non lottare”. Alla fine, da New York a Parigi, “quella che era un’antica tragedia, nobile musica di mito e di leggenda, finisce in profilassi”. Né più né meno: nel trambusto degli esordi, Henry Miller si conferma un acuto osservatore e anche nel turbinio di Crazy Cock riesce ad annotare che “la società aveva talmente complicato i rapporti tra gli uomini, aveva così avviluppato l’individuo in una rete di leggi e di dottrine, di totem e di tabù, che l’uomo era diventato qualcosa di innaturale, qualcosa di staccato dalla natura, un fenomeno che la natura stessa aveva creato, ma che non controllava più”. Lo schermo del linguaggio è limitato, per quanto indispensabile e arriva a chiedersi se “forse la migliore soluzione consistenza nel sottoporre il caso a una giuria: a un imparziale comitato di esperti. Che ciascuno scelga il proprio uomo. Che ciascuno racconti la propria storia”. È chiaro che, giunti a quel punto, vale “la sensazione del movimento, più che il movimento in sé per sé”. Per Henry Miller alias Tony Bring “le parole correvano come incalzate da una frusta, macchiando la liscia, bianca superficie in una linea erratica e continua”. Non c’è molto altro e secondo Mary Deaborn, Crazy Cock “naviga a metà strada tra l’accettazione e la rivolta, la soddisfazione e il disgusto” e ha qualche margine di ragione perché “viene un momento in cui il tocco della realtà diventa così netto che uno non è più un individuo tormentato dalle circostanze, ma un essere umano tagliato a fette... Quello che un minuto fa poteva aver dato l’impressione di essere su un pianeta vivente, un palpito di splendore nell’universo della notte, diventa a un tratto una cosa morta come la luna che arde di un fuoco di ghiaccio. In tali momenti tutte le cose diventano chiare: il significato dei sogni, la saggezza che precede la nascita, la sopravvivenza della fede, la stupidità di essere dio”. Tutto quello che resta siamo “noi e i nostri personaggi, perché noi siamo i nostri personaggi, affondiamo come navi abbandonate, barche troppo imputridite per resistere alla prima tempesta”: non a caso Henry Miller ribadiva che “lo scopo della vita è vivere”, ed è molto meno ovvio di quanto sembri.
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