A distanza di un secolo, Gertrude Stein resta ancora “un rebus mostruoso”, almeno quanto la vita avventurosa e la scrittura in sé, non meno movimentata. In qualsiasi punto di questa ricca antologia l’incedere è pura energia, una corrente elettrica che vibra in versi declamati in un flusso incessante, seguendo un ordito fittissimo, composto, come scrive in Oggetti, da “tutto ciò e non ordinario, non disordinato nel non assomigliare. La differenza si va diffondendo”. Il ritmo, sincopato, incessante, noncurante di un possibile o impossibile significato è tutto e il linguaggio è un’onda che fluttua. Le allitterazioni si incatenano senza sosta e il senso, dovesse essercene uno, rimane relativo: la stessa Gertrude Stein considerava “sperimentali” molte di queste frasi, le Stanzas, per dire, sono particolarmente criptiche, ma resta risoluta nell’insistere con accostamenti estremi, persino “astratti” nella forma, nelle maiuscole, nella punteggiatura anche dove dovrebbe spiegare: “Che cos’è la poesia. La poesia è questa. Non. Rifiutarsi. Di ascoltarla. E. Neppure. Di prenderne cura. Ma non sarebbe gentile. Saperne. Di più. Che cos’è la poesia. La poesia. È questa”. L’antologia ripercorre brani di prosa, cantilene, elenchi, variazioni tematiche sull’orlo della cacofonia, reiterazioni a raffica che Gertrude Stein difende a oltranza: “Posso spiegare com’è che ripetendo due volte una cosa se ne cambia il significato se ne cambia il significato per davvero. Il che lo rende più interessante. Se l’attribuiremo a una persona cominceremo a rendercene conto”, ed è certo importante comprendere perché “la ripetizione è e rimane trascendente”. Così Gertrude Stein in un passaggio ammette che “le parole non le capisco proprio” e le trasforma in qualcosa di sonoro e “questo è un suono e il fatto di essere premurosi e di esserlo ancora di più produce l’armonia dell’indugio”. Inoltrarsi nella sua scrittura prevede un grado di difficoltà non previsto nei manuali anche perché come dice in Stanze: “Questa che non è la ragione di una voce è ciò che resta di un offertorio”. Ci vuole una particolare predisposizione, e qui “c’è forse uno scambio, c’è forse una somiglianza con il cielo che ha permesso di stare lì e le stelle che riusciamo a vedere. C’è o non c’è. La domanda era questa. Non c’era nessuna certezza. Essere adatto ad un venir meno voleva dire che due qualsiasi mostravano indifferenza eppure stavano tutti cercando di mettere insieme, di mettere insieme quella riflessione”. Le sorprese arrivano in rapida successione, la Stein non fa sconti e dopo tutto “non c’è un movimento che indichi il silenzio, un movimento indica il meno, il più non è indicato è incantato”. L’unico leitmotiv è un substrato musicale (“L’armonia è così essenziale. C’è dunque piacere quando c’è passaggio, c’è quando tutte le stanze sono aperte”) sapendo che “non ci sono canzoni tristi. Una lezione ha la sua importanza” e che in fondo è vivida la sensazione è che sia “tutto un semplice tutto un semplice spettacolo” e che “in tutte le altre cose oh sì in tutte le altre cose le parole le une accanto alle altre hanno un suono vivace e allora significato ciò che significano e poiché significano possono significare come in effetti devono significare, voglio dire. Sì davvero”. L’esegesi non è richiesta né necessaria, qui ci sono “un mucchio di desideri. Tutti soddisfatti”, prendere o lasciare. Il coraggio per aver azzardato un ritratto, tra l’altro molto efficace, va riconosciuto a Sherwood Anderson: “C’è una città di parole inglesi e americane ed è da qualche tempo una città dimenticata. Parole robuste con le spalle larghe che dovrebbero marciare all’aperto, nei campi, sotto cieli azzurri, lavorano invece dietro a un banco in piccoli e polverosi negozi di granaglie, giovani vergini vanno impunemente in giro con puttane, parole illustri vengono impiegate per scavare fossi. Ancora ieri ho visto una parola, che un tempo avrebbe trascinato un’intera nazione alle armi, miserabilmente asservita alla pubblicità di un detersivo. Per me il lavoro di Gertrude Stein consiste in una ricostruzione, un rinnovamento completo dell’esistenza, nella città delle parole”. È un duro lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo.
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