domenica 24 luglio 2016

Jennifer Egan

L’indecisione che regna sovrana nell’incipit, una pagina di ripetute negazioni, una porta che non si apre, è già un’indicazione allarmante. Si capirà, più avanti, che lo stile titubante e, a tratti, scolastico che sottolinea La fortezza è dovuto a un particolarissimo narratore, i cui limiti sono espliciti e concreti. Tra l’altro, non è l’unica voce ad avere qualche problema con i fondamentali della scrittura, perché La fortezza si sviluppa su più piani e più tempi. Jennifer Egan non è nuova a soluzioni temerarie e a scomporre il flusso narrativo (con ottimi risultati come è stato per Il tempo è un bastardo) seguendo l’istinto essenziale dell’idea che “sei tu che inventi la storia, sei tu che la racconti, e a quel punto sei libero”. Tutto comincia quando Danny, un loser con la mania per la connessione, vola da New York verso un non meglio identificato villaggio mitteleuropeo dove La fortezza è stata acquistata da Howie alias Howard, un vecchio amico d’infanzia che ha l’idea di trasformarla in un resort rinascimentale, privo di contatti analogici e/o digitali, per riaccendere la fantasia. Tra lui e Danny c’è un antico e doloroso segreto che resta sospeso sopra La fortezza come un’inevitabile spada di Damocle. Il carattere kafkiano del soggetto viene svolto, almeno nel filone centrale, con una serie di colpi di scena, episodi e salti nel buio degni di Stephen King, dove la trama sembra riflettere la condizione di Danny, che “sapeva solo di vivere più o meno in un costante stato di attesa per qualcosa che da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, cambiasse tutto quanto, ribaltasse il mondo su se stesso e rimettesse in prospettiva la sua intera vita trasformandola in una storia di assoluto successo, perché ogni inghippo e avvitamento e intoppo e casino non aveva fatto altro che condurre a quello”. Inoltrandosi nel romanzo, si scopre che per La fortezza, Jennifer Egan ha architettato un meccanismo che funziona come una reazione a catena con i diversi (e parecchi) strati del racconto che si innescano uno con l’altro. Se la scrittura resta solida è perché Jennifer Egan supera i suoi alter ego, ma la natura della trama non va oltre un assemblaggio, particolarmente ardito. Si capisce l’ipotesi di superare una narrativa che è frutto dell’idea di “catturare fantasmi”, agendo sulla forma, sulle immagini, sulle dimensioni parallele solo che spesso è piuttosto la confusione a risaltare. Nel corso della storia, quella che a volte pare soltanto un traccia, poi diventa l’elemento decisivo, poi viene dimenticato. I passaggi dall’incoscienza alla realtà, dal racconto dentro il racconto, da un tempo all’altro, si intersecano con un uso disinvolto (forse fin troppo) della prima e della terza persona, a volte persino una dentro l’altra. Tirando le somme, nell’arco del romanzo ci sono (almeno) due narratori che non lo sanno fare e una scrittrice, Jennifer Egan, che lo so sa fare benissimo, ma che fingendosi uno e poi l’altro, alla fine sembra esserne assorbita. La storia zoppica come Danny, la coerenza svanisce insieme a personaggi impalpabili, l’intenzione va a corrente alternata come gli umori di Howie, il finale arriva frettoloso e La fortezza resta rigida custode di un’idea tanto ingegnosa quanto irrisolta.

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