venerdì 8 luglio 2016

Mike Davis

L’incubo che si materializza leggendo Il pianeta degli slum è un’ombra apocalittica sulla civiltà così come la conosciamo e sale proprio da quei luoghi in cui l’umanità nei secoli si è data regole, connotati, ruoli, forme di convivenza. Il pianeta degli slum è un’inchiesta su quelle che Mike Davis definisce “patologie della forma urbana”, ovvero le deformazioni delle metropoli nella loro essenza, da polis a ghetto, da centro a periferia, dove “il lento incrostarsi delle baraccopoli sul guscio della città è stato punteggiato da tempeste di miseria e scoppi improvvisi di edificazioni di slum”. Le città, esplose nella dimensione, nella popolazione, nelle forme e implose nella contrazione dei diritti, dei servizi e delle tutele si sono spezzate lungo la linea del fronte tra ricchezza e povertà, hanno attratto e nello stesso tempo respinto moltitudini, trasformando il miraggio del benessere in una trappola perché, come scrive Mike Davis, “la segregazione urbana non è uno status quo congelato quanto un’incessante guerra sociale in cui lo stato interviene regolarmente in nome del progresso, dell’abbellimento e perfino della giustizia sociale per i poveri per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite di proprietari di case e dei pendolari delle classi medie”. E’ un quadro che allarma e disturba nelle previsioni di Mike Davis che, mettendo in prospettiva l’analisi strutturale di dati demografici e architettonici e lo storytelling per descrivere le condizioni disumane che circoscrivono, dimostra come “la rapida crescita urbana in un contesto di aggiustamenti strutturali, svalutazione monetaria e tagli statali è stata inevitabilmente una ricetta per la produzione di massa degli slum”. Nella pericolosa intersezione tra industrie, sfruttamento, disastri e miseria “tutti i principi classici della progettazione urbana, compresa la conservazione dello spazio aperto e la separazione degli usi nocivi dei terreni dalle residenze, nelle città povere vengono capovolti. Sembra che una sorta di infernale ordinanza di zonizzazione imponga di circondare le attività industriali pericolose e le infrastrutture di trasporto con folte aggregazioni di baracche”. Un caos che si è pianificato da solo e, se nell’accumulo del disordine non è facile individuare delle possibili linee di sviluppo, Mike Davis prova a descrivere evitando riduzioni semplicistiche, non di meno sottolineando quella che è, a tutti gli effetti, una visione distopica: “Le città del futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila ciaio anni fa”. Bisogna solo aggiungere che, come sempre, la letteratura più coraggiosa Il pianeta degli slum l’aveva scoperto anni e anni fa, nel 1982, quando Don DeLillo scriveva in I nomi: “Crescendo, la città avrebbe consumato l’amara storia finché non sarebbe rimasto null'altro che strade grigie, palazzi a sei piani con la biancheria che ondeggiava al vento sui tetti. Poi mi resi conto che la città stessa era inventata da gente che aveva perduto i propri luoghi, gente costretta a ristabilirsi altrove, per sfuggire alla guerra, al massacro e agli altri, affamata, in cerca di lavoro”. Una lettura scomoda, ma necessaria.

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