giovedì 21 luglio 2016

Jenny Offill

Nell’incipit di Le cose che restano Jenny Offill traduce subito “una parola in codice per cielo blu”, proprio come Joan Didion definiva quel momento in cui “il crepuscolo diventa azzurro” e le Blue Nights preannunciano “un cambiamento di stagione, non proprio un clima più caldo, niente affatto, eppure all’improvviso l’estate sembra vicina, una possibilità, o meglio una promessa”. Il senso di quell’istante è tutto nel colore e le differenti tonalità sono l’essenza dello scorrere di Le cose che restano, che pare diviso in tre fasi. La prima parte è proprio dell’intensità delle “blue nights”. Il cielo indaco, sereno, immerso nella luce nasconde qualcosa di indefinito nell’aria e l’intuizione di una speranza disattesa si trasforma in una premonizione. Per comprendere Le cose che restano serve la conoscenza di tutta una geologia dei sentimenti, che risale alla lingua segreta parlata dal nonno (l’annic, che avrà un ruolo non secondario) e Jenny Offill ha una sua delicatezza nell’incontrare e nel presentare di la famiglia Davitt (Anna, la madre e Jonathan, il padre) disegnando una dimensione incantata, con lo stupore di Grace, la figlia. E’ sua la voce che traccia le distanze rispetto al mondo complicato e confuso degli adulti con i loro riti e le loro stravaganze. Gli sbalzi d’umore di entrambi i genitori, la precarietà di una condizione tra la razionalità di Jonathan e l’eccentricità di Anna con l’aggiunta delle oscillazioni di Edgar, il suo baby sitter, cui sogno è illuminare la città con una muffa fosforescente sono gli ingredienti che determinano l’evoluzione della specie e l’involuzione dei legami. Visti dagli occhi di Grace e data la propensione scientifica dei personaggi viene spontaneo a pensare a quello che scriveva Charles Darwin nella Ricapitolazione e conclusione, ovvero come “a prima vista niente può sembrare più difficile che il credere che i complessi organi e istinti si siano perfezionati non con mezzi superiori, sebbene analoghi, alla ragione umana, ma per l’accumulazione di innumerevoli lievi variazioni, ciascuna utile al loro possessore individuale”. La metamorfosi della storia si compie anche nei toni che, nella seconda nuance, pur non essendo molto differente dalla prima diventano più marcati, come se fosse pervasa da riflessi elettrici. Le parti combaciano e il brio iniziale quasi comico si trasforma, anche se Le cose che restano mantiene una sua fluidità e una sua identità che resta inalterata anche quando, dalla metà in poi il ritmo diventa convulso. Grace è prigioniera (come è inevitabile) delle proiezioni e delle variazioni d’umore della madre e la vena di follia di Anna si rivela contagiosa. Le stravaganze diventano sempre più bizzarre, Grace fugge con lei dal Vermont a New Orleans fino al deserto californiano, dove il miraggio si spezza. Le cose che restano passano dalla presenza, alla partenza e, arrivate allo stadio terminale dell’assenza, la variazione dominante sfuma nel blues, in tutti i sensi. Bisogna ammettere che, con Le cose che restano, Jenny Offill ha molta più dimestichezza con i contorni indefiniti, quando tutte le possibilità sono ancora all’orizzonte, magari nascoste in un alone di mistero o circondate da un’aura impalpabile. E’ molto più brava a nascondere, che a svelare. Quando le differenze si manifestano e diventano solchi e confini invalicabili e il ritmo diventa più convulso, Jenny Offill, che è molto vicina al cuore dei suoi personaggi, pare perdere il controllo con loro e la verità è che Le cose che restano sono comunque quelle allineate nella prima fase del romanzo, dove l’attrito tra il mondo degli adulti e la meraviglia di Grace provoca scintille, magie, colori da immaginare.

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