giovedì 5 novembre 2015

Philip Caputo

Un libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam. Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato: “In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio, cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a Inseguendo Cacciato di Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana. Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata, la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una sconfitta qualsiasi.

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