lunedì 9 novembre 2015

Benjamin Franklin

La Cronaca di un massacro di indiani è un pamphlet di Benjamin Franklin che rilegge un episodio della vita lungo la frontiera negli anni precedenti l'inizio della guerra d'indipendenza americana. Siamo nel 1763 quando i Paxton Boys, una pattuglia di coloni di origini irlandesi, massacra un manipolo di indiani Conestoga, senza alcun motivo apparente. Le notizie dell'epoca riportano un eccidio efferato, ma di dimensioni numeriche ridotte, rispetto a scontri, guerre e guerriglie ben più disastrosi. Solo che la strage avviene in un contesto politico già squilibrato, su linee di confine, fragili e limitate che non riescono più a definire con qualche margine di sicurezza i rapporti tra i nativi, i coloni e gli inglesi. Le terrificanti scorribande dei Paxton Boys non sono casuali: c'è un metodo nella concatenazione dei loro assalti che si nutre del rifiuto delle leggi e degli accordi e dell'apologia della violenza come strumento per regolare la vita (e la morte) nella wilderness. Le motivazioni hanno sottili connotazioni economiche e politiche che un altro testimone, il predicatore John Woolman spiegava così: “La gente di frontiera tra cui tale male è così diffuso, è spesso povera, e si avventura oltre i confini di una colonia per poter vivere in maniera più indipendente da coloro che possiedono la ricchezza, i quali spesso fanno pagare alti canoni d'affitto per le loro terre”. Questa reazione a catena, sulle basi dello sfruttamento della terra e degli uomini, lascia intravedere nelle gesta dei Paxton Boys i germi della rivolta che porterà alla guerra d'indipendenza. Le parole del pamphlet di Benjamin Franklin lasciano intendere che quello è un solco ben preciso nella genesi della nazione americana. Quello che contempla non è soltanto la condanna, logica e spontanea, del massacro di civili inermi e delle dinamiche in cui è maturato. Mette in evidenza anche la debolezza delle istituzioni, del diritto, delle colonie, persino della conoscenza dei nativi e delle terre che abitano. In un pamphlet successivo, quando già gli Stati Uniti erano diventati una realtà, Benjamin Franklin scrivevrà: "Chiamiamo selvaggi questi popoli perché i loro costumi sono diversi dai nostri; che crediamo rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno la stessa opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi delle diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è alcuno così educato che non conservi qualche residuo di barbarie". Nella perentoria presa di posizione, in Cronaca di un massacro di indiani, non solo in difesa dei nativi, ma anche di una logica di vita civile e pacifica, non mancava l'affondo morale: “Concluderò dicendo che qualunque codardo può maneggiare le armi, colpire dove sa che non vi sarà reazione, ferire, mutilare e assassinare, mentre risparmiare e proteggere è prerogativa degli uomini coraggiosi”. Tanta ostinazione gli guadagnò l'ostilità generale tanto da costringerlo a lasciare l'America per Londra. Un esilio che non gli ha impedito di diventare uno degli intellettuali fondamentali per l'America anche e proprio per la sua predisposizione a cercare di capirne le contraddizioni già agli albori della sua storia. L'America si è retta, e si regge da sempre, sul confronto degli opposti, su una convivenza difficile e complessa, con una violenza pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Altro che melting pot.

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