domenica 22 novembre 2015

Kurt Vonnegut

Le Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa: “L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi, quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione, garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili, inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto, lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi, proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà, poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos, quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse, magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente, sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere gravemente alla salute.

Nessun commento:

Posta un commento