lunedì 16 novembre 2015

Wallace Stevens

Le ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il mondo come meditazione suonano come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento, saluto e arrivederci. E’ vero che “una poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte considerare Il mondo come meditazione implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne del New England, quando “il modo della persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via dell’autobus, perché “siamo esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto, essendo fatta di parole che “sono insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel sapere interpretare Il senso ordinario delle cose o Il corso di un particolare, ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il fiume dei fiumi in Connecticut (“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”, iniziando con La regione novembre (“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano, ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione in Il mondo come meditazione quando scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La vela di Ulisse (“Non è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi, quasi con un tono colloquiale, in L’uomo malato, firmando un toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio, le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”. Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso, secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non resta altro, come diceva qualche anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.

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