martedì 28 aprile 2015

Amanda Petrusich

L'idea può sembrare banale: una cavalcata ai confini dell'America, seguendo le linee già tracciate dalle Strade blu di William Least Heat-Moon, richiamato senza esitazioni fin dalle prime pagine. Non senza una certa ironia, la stessa Amanda Petrusich definisce It Still Moves “un saggio su un viaggio in macchina ascoltando dischi fatti da gente con la barba”. Qualcosa di vero c'è: è una specie di road movie tra i luoghi fondamentali della musica americana, inseguendo l'ossessione per la purezza e l'autenticità, che sono sempre un miraggio perché il più delle volte “crediamo a dei manufatti che rappresentano attività ed emozioni che la maggior parte di noi non ha mai vissuto in prima persona”. Questo vale in modo particolare quando si parla di strumenti, studi di registrazione, negozi di dischi e tutto l'armamentario necessario alla creazione e alla riproduzione della musica e Amanda Petrusich è molto intuitiva nel suo vagabondaggio perché sa benissimo che “qui il punto non è il sound, ma il messaggio e il gesto”. A priori, è una questione di identità, di collimare i fenomeni umani e storici con i paesaggi e le strade e It Still Moves spiega molto bene il fascino della musica americana in tutte le sue declinazioni geografiche, temporali e culturali. Una magia che non è facile da cogliere, né da descrivere, e che è avvolta da un'aura di misteriose contraddizioni perché “è così facile lasciarsi sedurre dal semplice, organico fascino della vecchia America, trasformare il kitsch in merce, collocare i banjo al di sopra dei sintetizzatori, gli empori al di sopra dei centri commerciali. E' sempre più semplice diventare nostalgici per il passato che impegnarsi a reinventare delle tradizioni spente e svuotate per un mondo nuovo, e farlo in un modo che sia altrettanto significativo adesso di allora”. In questo c'è anche il senso ultimo del titolo di It Still Moves, che porta Amanda Petrusich a Graceland, (è inevitabile) agli Appalachi e alla Carter Family, a Nashville e a Hank Williams, allo Smithsonian e a Woody Guthrie e a scegliere come unico compagno di viaggio, adagiato sul sedile posteriore, il bellissimo cofanetto dell'Anthology Of Folk American Music di Harry Smith visto che “la prima musica folk americana ha un suono che non assomiglia a nient'altro al mondo”, e su questo non ci piove. Il bagaglio aumenta tappa dopo tappa e così si raffina anche la consapevolezza di Amanda Petrusich. Arrivata alle battute finali, è piuttosto esplicita quando fa notare come “la musica americana rispecchia il paesaggio da cui proviene; e man mano che quel paesaggio cambia, inghiottito dallo sviluppo e dai disastri industriali e ambientali, man mano che l'aria che inspiriamo ed espiriamo con i nostri polmoni si riempie di nuove particelle, man mano che l'acqua che beviamo vede i suoi livelli di fluoruro regolati e i minerali contenuti modificati, diventa perfettamente sensato che la musica americana si faccia più patinata, più costruita e meno reale”. Il viaggio di It Still Moves termina a Brooklyn: il capolinea, in fondo, è ancora il primo approdo e lì tra un isolato e l'altro dove dove l'avant-garde è consuetudine, Amanda Petrusich sembra tornare a riflettere sul senso ultimo, in apparenza vago e surreale, di “canzoni e autostrade perdute”. E' curioso che la sua opinione più intima, la più sincera, si sveli nella descrizione di certa pasticceria homemade divorata lungo la strada: “Non m'importa se è grossolana. E' anche deliziosa”. Vale anche per quella musica americana.

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