venerdì 13 dicembre 2019

Robbie Robertson

Forse restando fedele al titolo (che era anche quello della canzone che concludeva il suo primo album solista, arrangiata da Gil Evans), Robbie Robertson non nasconde nulla, si concede con generosità, esplorando con dovizia particolari e senza reticenze ombre ed eccessi, ed è sincero anche nel far coincidere la storia raccontata da Testimony con quella della Band. Non è un’opzione così ovvia o banale: Robbie Robertson delimita un periodo nel tempo, gli anni che vanno dal 1965 al 1976, e un solco nei territori americani che ricalcano le intersezioni sulla mappa dall’Acadia alla Louisiana. La definizione delle coordinate è essenziale per seguire la ricostruzione dell’identità di Robbie Robertson che è un frutto cosmopolita del melting pot: Testimony è prodigo di sfumature nel scandagliare la sua formazione, che ben presto viene travolta dalla scoperta del rock’n’roll. Comincia battendo a tappeto bettole, bar e postriboli con Ronnie Hawkins, un’esperienza che gli permette di affinare le abilità strumentali, di praticare i fondamentali del blues e del rhythm and blues nonché di apprendere i pericoli e le difese immunitarie della vita on the road. È con Ronnie Hawkins che conosce i musicisti che diventeranno partner e complici delle sue avventure musicali, a partire da Levon Helm per arrivare alla line-up degli Hawks con Richard Manuel, Garth Hudson e Rick Danko. In Testimony c’è un’ampia ricostruzione del passaggio naturale dagli Hawks alla Band, una volta svolta giunta seguendo spontaneamente i progressi musicali, e non solo, così come la racconta Robbie Robertson: “Avevamo ripulito la macchina dei sogni, e per noi era importante viaggiare senza bagagli superflui”. L’incontro, determinante, con Dylan fu propiziato dallo stesso milieu, da una curiosità instancabile e dall’accortezza di essere di fronte a un talento unico e inimitabile. Ecco come Robbie Robertson descrive il momento in cui Dylan gli fece sentire in anteprima Highway 61 Revisited: “Non riuscii a capirci molto, con la musica altissima e Bob che ci parlava sopra, ma davanti a tutto c’era la sua voce, da cui sgorgavano le più strabilianti acrobazie liriche che erano mai state impresse su vinile. La sua incredibile immaginazione e il suo originalissimo fraseggio vocale mi stesero completamente. Da dove spuntava fuori quella roba? Il rock’n’roll non era nato con una sofisticata attitudine per i giochi di parole, ma non l’avresti detto ascoltando quelle canzoni”. Era una frontiera che si stava spalancando e la Band si ritrovò nella tempesta con il suo capitano e, come ammette Robbie Robertson, all’epoca “fu pesante. Eravamo nel mezzo di una rivoluzione rock’n’roll; o aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi”. Gli strali e le contestazioni per la svolta elettrica non lasceranno però danni permanenti e il processo di osmosi tra Dylan e la Band gioverà a entrambi, realizzando nella singolare vita comunitaria nei boschi di Woodstock, quella “repubblica invisibile” che ruota attorno a Music From The Big Pink e ai Basement Tapes. La forma scelta da Robbie Robertson si avvale di uno stile dal tono colloquiale, uno storytelling senza particolari velleità letterarie che però ha il pregio indiscutibile di condurre il lettore per mano proprio lì, dove stava succedendo tutto: dalle peripezie al seguito di Dylan attorno all’emisfero agli incontri con Jimi Hendrix e Allen Ginsberg, con i Beatles e i Rolling Stones, con Dr. John e Gregory Corso, con Marshall McLuhan e Martin Scorsese. I ritratti sono sempre benevoli e accurati, l’aneddotica è ricchissima e costante nel suo fluire e il collante ideale resta la musica, intesa come strumento per esplorare il mondo in nuove avventure. È un libro che brulica e vive di musica con Muddy Waters, i Velvet, Neil Young e Joni Mitchell e una lunga teoria di colleghi chitarristi, tra cui Roy Buchanan, Eric Clapton e Ron Wood. Una “festa mobile” che segue l’inimitabile groove della Band: Testimony è una versione intensa e colorita di quegli anni turbolenti che Robbie Robertson racconta da dentro, da protagonista. È il testimone, più che la testimonianza, con la sua voce a rendere plausibile l’interpretazione dei fatti, visti e vissuti da vicino, ma ricollocati nella giusta prospettiva e con quel diplomatico savoir faire, come se fosse una guida sui Catskill, per le vie di New York o di New Orleans. Lì si capisce il legame con le immagini e l’assidua frequentazione di Robbie Robertson con il cinema che si traducono nella ricostruzione della vita al Chelsea Hotel fino al commiato finale di The Last Waltz con cui Robbie Robertson conclude Testimony. Una scelta appropriata che racchiude un sottile cerchio di genio e follia. La fine, tra il 1970 e il 1971, di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison segna un punto di non ritorno che Robbie Robertson riporta ammettendo che “questi eventi gettarono una luce spietata sulle condizioni della Band. La vita può volare via, specialmente se giochi con il fuoco”. Il romantico e maestoso crepuscolo di The Last Waltz arriva calando il sipario nel momento giusto, perché come dice Robbie Robertson, “eravamo sopravvissuti alla follia del mondo, ma non alla nostra”. Anche in questa lucida onestà, Testimony è puro rock’n’roll, dall’inizio alla fine, per tutte le sue seicento pagine. Obbligatorio. 

2 commenti:

  1. Buonasera, complimenti per l'articolo, sono un collaboratore di Roots Highway. Una domanda: il libro è in lingua originale americana o è tradotto in italiano?

    RispondiElimina