giovedì 12 dicembre 2019

Stephen King

L’assemblaggio dei cliché predisposto da Stephen King in La zona morta ha perfezionato il suo standard che da lì in poi è proliferato immutato. La cittadina di provincia, l’imprevisto che travolge le apparenze della normalità, una certa avversione al potere costituito, un serial killer (qui basato su una storia vera), la paura dell’apocalisse nucleare e la tradizione americana dell’assassinio dei presidenti, il rapporto tra generazioni di padri e figli, una sottile malinconia di fondo e, naturalmente, l’elemento del mistero, nello specifico la chiaroveggenza, come ulteriore scarto rispetto alla realtà, sono gli elementi distintivi del collage su cui è basato La zona morta. Anche il nome del protagonista, Johnny Smith, sembra consolidare l’idea di una rivisitazione dei luoghi comuni americani, come se Stephen King avesse voluto distribuire le carte della vita quotidiana e tradizionale un po’ a caso per poi far leva sull’imprevedibilità. Per Johnny Smith, si tratta della capacità di vedere avanti e indietro nel tempo, che è un dono e insieme una maledizione. A ben guardare le sue visioni sono sempre parziali e il suo intervento nel modificare l’evolversi della storia non va mai nella direzione voluta. C’è un margine di deviazione, come se la chiaroveggenza fosse una porta aperta, ma non una destinazione certa. La zona morta è proprio in quella specifica area e Johnny Smith pare essere cosciente di questa condizione che lo lascia impotente, fragile e nudo davanti all’incalzare degli eventi. Lo snodo cruciale è l’incontro con la figura di Greg Stillson, un politico arrembante e particolarmente infido. Non è difficile immaginare che Stephen King abbia ricalcato il personaggio di Greg Stillson su quella progenie di candidati spregiudicati e pronti a tutto che ebbero poi in Ronald Reagan (La zona morta risale al 1979) l’apice indiscutibile e intramontabile, nonché il capostipite (insieme alla Thatcher) di tutte le imitazioni (alcune particolarmente deleterie) che seguirono. Il conflitto tra le ambizioni del candidato e le percezioni di Johnny Smith, il cui nome in questo caso appartiene proprio al common man, l’uomo della strada, rivela l’appariscenza tra due diverse solitudini. Anche qui il contrasto con Greg Stillson è palese visto che cerca con insistenza il contatto con tutti, ma nel modo più banale e frettoloso, e con l’ovvio obiettivo di guadagnare un consenso, mentre il tocco umano di Johnny è sinonimo di relazione. Nel suo caso, a un livello troppo immediato e profondo, e quindi doloroso. L’arte della persuasione si scontra con l’indefinita facoltà di Johnny di proiettarsi lungo frazioni di tempo e l’attrito tra protagonista e antagonista è il motore della storia, come ha confermato lo stesso Stephen King in On Writing: “La zona morta scaturì da due domande: può un assassino politico essere nel giusto? E in questo caso, se ne può fare il protagonista di un romanzo? Il buono? Queste ipotesi di lavoro richiedevano secondo me un politico pericolosamente instabile, un individuo che potesse dare la scalata all’Olimpo elettorale mostrando al mondo il volto gioviale dell’ottimista e accattivandosi l’elettorato rifiutando di giocare secondo le vecchie regole”. È il nucleo nascosto da Stephen King in un romanzo che scatta un capitolo dopo l’altro, come se fossero episodi di Twilight Zone, in modo molto lineare, anche elementare volendo, ma efficace, dove l’equilibrio tra l’elemento eccezionale e la realtà filtrata attraverso la fiction definisce quella forma leggera, pop, e senza particolari pretese, ma che resta magnetica e a prova di riduzione cinematografica, peraltro resa in modo altrettanto accurato dal pregevole lavoro di David Cronenberg.

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