sabato 28 dicembre 2019

Salvatore Scibona

I nomi si trasformano, assecondando le metamorfosi delle personalità e dei tempi: dal Vietnam all’Afghanistan, guerre trasmesse da padre in figlio, lungo un albero genealogico insanguinato, che non prevede radici e resta in balia di logiche imperscrutabili. Così, se “una persona è un mondo che cammina per il mondo”, le storie individuali restano appese a dossier indecifrabili e lacunosi e perdersi per sempre è un attimo. Il frutto acido che resta è una solitudine che si trasforma in violenza mentre la ricerca dell’identità perduta porta nei solchi di un’America desolata, tra ghetti e motel sgangherati, industrie fallimentari e inquinanti dentro quel paesaggio in the middle of nowhere che porta a chiedersi “Quante cose non siamo riusciti a vedere perché dovevamo stare lì a guardare? Quante più cose abbiamo visto quando eravamo con altri?”, e l’amarezza è compresa nel prezzo. Il principale protagonista, figlio di agricoltori dello Iowa, Vollie Frade che diventa Tilly e/o Dwight, “era stato un assassino. Era stato sedotto dal potere dell’America, dagli strumenti con cui l’America moltiplicava il suo potere omicida. In realtà lui era stato solo uno strumento, il moltiplicatore che l’America aveva impiegato per soddisfare la propria furia omicida”. È proprio Il volontario che determina le onde sismiche che smuovono e connettono i personaggi del romanzo di Salvatore Scibona. Tornato dal Vietnam, dove ha trascorso più turni (e una lunga prigionia), si ritrova a New York nel buio, tra il 1973 e il 1974, con una missione segreta che si risolve in un disastro. Rimasto solo, senza alcun appiglio, con un bagaglio sterminato di fantasmi, Il volontario ha soltanto un indirizzo a cui rivolgersi, quello di una comune dove vive il suo commilitone Bobby Heflin, dall’altra parte dell’America, nel New Mexico. Lo lega solo una sparuta corrispondenza ritirata da una casella postale, ma si mette in viaggio coast to coast. Arrivato a destinazione non trova Bobby Heflin, ma il piccolo Elroy che vive con Louisa. Lei è la madre, ma la figura paterna resta imprecisata, visto che la libertà dei costumi della comune lasciava ampi margini di discrezione nella diffusione di gesti d’amore. Il volontario decide di occuparsi di Louisa ed Elroy, ma non ha molto da offrire essendo giusto un nome in un dossier: viaggiano nel deserto, dormono in macchina, mangiano quello che capita passando da una stazione di servizio all’altra. Quando si separano ed Elroy si ritrova abbandonato, solo con il suo secondo nome, Peace, perché la pace “significa che siamo liberi dalla guerra”, ma vivono in un paese affollato di reduci. Anni dopo, lo stesso Elroy è stato a più riprese in Afghanistan e all’ultimo rientro dichiara di essere fuori, e del resto non è stato in grado di accudire il figlio, Janis che diventerà Willy, avuto da una fugace relazione. Il suo abbandono, all’aeroporto di Amburgo, è l’incipit del romanzo che prende forma a strati, spiazzando a ripetizione il lettore: nel nucleo c’è una profonda tristezza come prodotto derivato dall’impotenza di fronte alle ingerenze del potere in ogni forma. La disgregazione è completa, e non pare esserci possibilità di rimedio. La sopravvivenza di un nome a discapito di un altro segue un’andamento elicoidale, come se un pensiero subliminale avesse contagiato il DNA della scrittura esagerata di Salvatore Scibona. Nel suo intercalare trovano posto il linguaggio della pubblicità in tutte le sue forme, un’ampia e puntuale digressione sugli sviluppi delle crisi finanziarie, residui degli esperimenti atomici a Los Alamos, e molto altro ancora, come se Il volontario fosse un prisma dentro cui filtra l’incompiuto passaggio  dal ventesimo secolo a oggi, con una singolare coda che guarda al domani. La dimensione della storia, che si sviluppa lungo quattro generazioni e tre diversi continenti, ammette sensibili divagazioni di percorso, di ritmo e di tono, compreso il bizzarro finale, che non sempre paiono immediate nel complesso contesto che Il volontario offre. L’architettura del romanzo prevede una cortina fumogena molto spessa nel mascherare legami e fratture, che sono cause ed effetti di un disorientamento più acuto, un distacco più netto che va cercato restando incollati alle tracce, nome dopo nome, incontro dopo incontro, fuga dopo fuga. Un romanzo ingombrante e coraggioso, con cui è necessario fare i conti.

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