Quando inizia a scrivere racconti, nel 1950, Kurt Vonnegut è spinto da necessità tanto prosaiche quanto impellenti, come raccontava nell’intervista con Wendy Smith in L’arte dello scrivere: “Avevo bisogno di soldi. L’unica mia possibilità era la narrativa, perché le riviste pagavano molto bene i racconti. Probabilmente ora pagano meno, be’, di sicuro non molto di più di quando cominciai quarant’anni fa. Dopo breve tempo, guadagnavo di più con i racconti che alla General Electric, così diedi le dimissioni”. Era tutta un’altra epoca: la short story aveva una valore particolare, non era soltanto intrattenimento, aveva l’onere compito di rappresentare, attraverso la fiction, l’evoluzione di una società, con le sue idiosincrasie e i suoi mutamenti. È vero come dice Dan Wakefield tra le righe del voluminoso apparato critico che “i racconti erano stati il nostro passatempo nazionale, ma ora venivano sostituiti dalla televisione” e quel passaggio pare alimentare l’idea di Dave Eggers secondo il quale “è passato molto tempo da quando un racconto ci ha detto, o ci ha ricordato, cos’era nobile e cosa malvagio, come dovremmo agire e come possiamo vivere dignitosamente”. Questa distinzione illustra senza possibilità di equivoco, la sottile, ma evidente linea che unisce quelle “storie moraleggianti incastonate nella germogliante prosperità”, come le definisce ancora Dave Eggers. È la coerenza di Vonnegut nel perseverare a tenersi a distanza da forme di omologazione e nel mettere in evidenza le distorsioni di un mondo sempre più complicato. La gamma dei soggetti e la vastità dei racconti hanno suggerito una suddivisione tematica piuttosto spartana, ma funzionale in Guerra, Donne, Scienza, Amore, Etica del lavoro contro fama e fortuna, Comportamento umano, Il direttore della banda e Il futuro, un argomento a doppio taglio. Secondo Jerome Klinkowitz: “Vonnegut usava ambienti futuristici per contrastare sperate utopie con le distopie che nelle imprese umane le seguono così spesso”. La definizione non è così contorta come appare in prima istanza: con l’ironia e l’arguzia che lo distinguono, Vonnegut aveva un tocco profetico. In Tutti i racconti confluiscono le storie di Guarda l’uccellino, Benvenuta nella gabbia delle scimmie e Baci da cento dollari e Ricordando l’apocalisse, più una ventina di inediti sparsi e formano una galassia narrativa imponente che mette in luce, una volta di più, la singolare identità di Vonnegut. Lo stile si propaga senza soluzione di continuità secondo il principio di Vonnegut per cui come narratore sceglie di non nascondere nulla al lettore”, anche quando le conseguenze delle scelte e delle azioni di un’umanità un po’ distratta sono catastrofiche, se non proprio irreparabili. È un latente senso per l’apocalisse che lo distingue, e che lo portava a precisare che “di certo, noi distruggiamo l’armonia del pianeta. Ora come ora siamo sul punto di uccidere tutto, e non ne saremmo capaci, se non fosse per i nostri grandi cervelli. Gli elefanti hanno in qualche misura lo stesso problema: dato che i loro pascoli si riducono, questi bestioni distruggono un intero villaggio ogni giorno; radono tutto al suolo per mangiare. Essere grandi e forti come loro una volta sembrava un’idea brillante, ma non è più un buon sistema per sopravvivere. E gli umani... Ogni mattina, solo qui a New York, otto milioni di persone di alzano e vanno in giro come pazzi per otto ore”. Era soltanto una risposta dentro un’intervista, ma suona già come l’incipit dell’ennesimo racconto, perché per Vonnegut la nobile arte del seguire un personaggio dentro una storia, partiva dall’istinto, dall’osservazione, dal saper leggere attraverso e oltre le confuse coordinate della realtà. Con uno spiccato senso di complicità verso i suoi lettori che, in cima alla mole di Tutti i racconti, si premura di allertare così: “State attenti perché partendo da qui potremmo approdare chissà dove”. Non è l’unica incognita, ma il viaggio resta formidabile.
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