sabato 19 ottobre 2019

Willy Vlautin

Ogni personaggio se ne porta dietro un altro, come se la disgregazione delle storie personali dovesse comporsi in una sequenza sincopata di incroci collaterali, le vite saldate a due a due da segmenti dentro una sorta di rete invisibile e casuale. Il denominatore comune di The Free è la fatica di vivere in America, assediati dalla solitudine che imperversa come un virus a cui pare non esserci rimedio. È la dimensione in cui vivono (e muoiono) i personaggi di The Free, a partire da Leroy Kirvin, già dall’incipit, rappresentante di un’intera nazione di reduci e veterani delle guerre americane. Sconvolto dall’esperienza militare, Leroy tenta il suicidio e si ritrova immobilizzato e intubato in un letto di ospedale. Nell’infelice posizione, Leroy introduce Freddie McCall e Pauline. Freddie lavora nella casa famiglia dove era ospite dopo essere tornato, ferito, dall’Iraq. È separato, ha due figlie, una delle quali ha un costante bisogno di cure mediche, una questione spinosa con un welfare ridotto ai minimi termini. Per far fronte a tutti i conti, Freddie, ha una seconda occupazione nel negozio di vernici di Pat Logan, il classico figlio di papà imbelle e incapace. Pauline è l’infermiera che accudisce Leroy, non meno di un padre disturbato e irascibile a cui è legata da “un ineluttabile senso di responsabilità”. A sua volta Pauline incrocia Jo, che  smuove in lei un senso di pietà e di solidarietà: “C’erano state delle volte, quando aveva iniziato a fare l’infermiera, in cui si sentiva sopraffatta dai suoi pazienti. Si sentiva sommersa e intrecciata alle loro vite. Aveva impiegato anni per costruirsi un muro di protezione, e a volte aveva ancora lo stesso problema. Adesso si concedeva solo qualche attimo di cedimento, poi trovava il modo di ricomporsi alla svelta. Ma quella ragazza le ricordava troppo se stessa e il modo in cui si sentiva alla sua età. Sola e inascoltata e indesiderata e insignificante”. Jo, che poi si scoprirà chiamarsi Carol, fa parte di una una pattuglia di outsider, tossici e disperati. Le sequenze, a cascata, sono intervallate dalla presenza onirica di quello che resta della coscienza di Leroy che, nella sua infermità, “aveva la costante sensazione di precipitare e le uniche cose che riusciva a vedere erano le cose dell’inferno”. Nel contrasto appaiono anche la fidanzata, Jeanette, e la madre Darla, che lo assiste leggendogli romanzi di fantascienza. Un cappa tristissima li avvolge tutti come se fossero incastrati in una disperazione da cui non sanno come liberarsi. L’attenzione è scrupolosa, ma anche spietata, perché Willy Vlautin non concede nulla ai suoi personaggi, che arrancano a fatica dentro vite con due lavori, avvolti nell’indifferenza, ospiti in malinconiche camere di motel e in auto che perdono letteralmente i pezzi per strada e che si ritrovano a dormire in un sacco a pelo perché non hanno pagato le bollette del gas. In The Free c’è un’umanità che vive ai margini, ai limiti dell’indigenza, eppure è travolta dalla storia, sia essa il riflesso dell’ennesima crisi economica o di un lontanissimo conflitto nel deserto del Medio Oriente: la luce invernale, aspra e tagliente, porta il marchio di un sano, indiscutibile realismo. C’è il fantasma di Raymond Carver che aleggia in The Free e si addensa nel romanzo, come se fosse una catena di racconti che si succedono senza soluzione di continuità. Le atmosfere sono livide e dure perché forse ha ragione Leroy Kirvin quando pensa che “forse la gente si consuma, semplicemente”, eppure, tra tutti, Freddie e Pauline riescono a vedere un futuro, una speranza anche nel bel mezzo di una desolazione senza via di fuga. Willy Vlautin è molto coraggioso nel raccontare i tentativi di tenere insieme i pezzi, l’insistente ricerca di una ragione per credere ancora e per andare avanti, affondando le mani nell’America di oggi, incompiuta e dolente. Un romanzo scomodo e necessario.

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