Bisogna partire dal presupposto che “è nella natura dell’uomo saper scrivere soltanto degli inferni che si è creato da sé”, per capire come Howard Fast alias Walter Ericson abbia saputo tradurre un romanzo storico in una lezione morale, già esplicita nella dedica ai figli, dove spiega che quella di Spartacus “è una storia di uomini e donne di coraggio che vissero molto tempo fa e i cui nomi non furono mai dimenticati. Gli eroi di questa storia sostennero la libertà e la dignità umana, e vissero nobilmente e bene”. Il confronto con Roma è implicito, diretto e inequivocabile: imperversando per quattro anni, le rivolte di Spartaco mettono a nudo la decadenza, l’ambiguità e la fragilità della repubblica. Le vittorie ottenute sul campo, una sorpresa vista la rinomata efficienza delle legioni romane, giungono perché gli schiavi non hanno nulla da perdere e lottano per un concetto elementare: gloria o morte (o forse è meglio dire: gloria e morte). Anche Spartaco ribadisce che “non combattiamo per noi stessi, combattiamo per il mondo intero” con la convinzione che “una volta almeno nella vita, nella storia e nelle leggende d’ogni popolo c’era stata l’età d’oro, quella vissuta dagli uomini senza peccato e senza rancori, insieme, in pace e in amore”. La differenza è che nella capitale restavano convinti che “la giustizia era lo strumento dei forti, da usarsi secondo il desiderio dei forti; la moralità, come gli dei, era l’illusione dei deboli” e, di conseguenza, che “la ragione è Roma e Roma è ragionevole”. La corruzione endemica, la decadenza che ha portato a divertimenti senza più gioie, l’opulenza cresciuta a dismisura sulla pelle (letteralmente) degli schiavi, fino all’estrema follia del pubblico massacro dei gladiatori, ovvero la spettacolarizzazione del conflitto, della battaglia e, in definitiva, della morte sono componenti che aleggiano in Spartacus in forma di contrasti e riflessi. Con una scrittura quasi da feuilleton, descrittiva e minuziosa, volta a portare il lettore direttamente nel 71 avanti Cristo, tutto preso dall’avvincente metamorfosi di Spartaco, da schiavo al limite della sopravvivenza a guida dei ribelli, Howard Fast ne racconta le gesta seguendo l’iter di una sequenza di flashback che partono dal viaggio da Roma verso Capua, con fondamentale tappa a Villa Salaria, di Caio Crasso, della sorella Elena e dell’amica Claudia Mario. Lungo la via Appia hanno modo di trovarsi a stretto contatto con i caduti inchiodati alle croci perché “Roma non scherza. La punizione è adeguata al delitto, e in questo consiste la giustizia di Roma”. Il monito, ultima coda di uno spargimento di sangue spropositato, è palese perché “un uomo sulla croce non è più un uomo” ed è sottinteso che convenga a tutti che rimanga sottomesso. A Villa Salaria, i giovani viaggiatori trovano, radunati per l’occasione da Howard Fast, tre personalità rappresentanti altrettanti forme del potere: Crasso, il generale vittorioso e ricchissimo che ha sconfitto Spartaco, Gracco, l’abile politicante teso a commerciare voti e prebende, e Cicerone. Ospiti ben allietati da sofisticati menù e dalle raffinate abitudini patrizie, che Howard Fast non manca di sottolineare dettaglio per dettaglio, come per ribadire che, se da una parte vengono serviti “filetti freddi anitra affumicata e arance candite”, dall’altra si soffrono la fame e la sete e ogni altra privazione di un inferno che “ha inizio là dove gli atti semplici e necessari della vita diventano mostruosi; e questa esperienza, attraverso tutte le età, fu condivisa da tutti coloro che provavano l’inferno creato dagli uomini sulla terra”. Nel lussurioso convivio tocca a Gracco rispondere alle sollecitazioni che le cronache hanno portato fino alle periferia di Roma: “Noi razionalizziamo l’irrazionale. Convinciamo il popolo che la più grande soddisfazione nella vita è di morire per i ricchi, e convinciamo i ricchi che devono rinunciare a parte delle loro ricchezze per mantenerne il resto. Siamo dei maghi. Creiamo un’illusione, e questa illusione è a tutta prova”. È grazie a questa architettura di mistificazioni e paradossi che la repubblica si regge, e quando la realtà resta “solo un’inizio” e la verità diventa impossibile “non perché non esistesse, ma perché non era giustificata dai tempi”, rimane la forza militare a imporre l’amministrazione e l’ordine di Roma. Il vero scotto da pagare lo rivela Varinia, la compagna di Spartaco, nel dialogo finale con Gracco, che l’ha voluta con sé a tutti i costi: “Non abbiamo messo a fuoco il mondo. Tutto quello che volevamo era la nostra libertà. Tutto quello che volevamo era di vivere in pace. Non so parlare come te, non sono stata educata, non so parlare bene nemmeno la tua lingua; quando parli mi confondi. Non mi confondevo quando ero con Spartaco. Sapevo quello che volevamo: volevamo essere liberi”. Le guerre servili restano un capitolo lancinante nella storia di Roma, un nervo scoperto nella traballante natura della repubblica. Spartaco, come ripete Varinia, è convinto che “non c’è nulla di più importante che essere un uomo, un uomo semplice, comune e umano”, mentre Roma si regge sullo sfruttamento indiscriminato di uomini e donne. Detto questo le spire del romanzo sono avvolgenti: Howard Fast è convinto della scelta di Spartaco, sta dalla sua parte e non lascia alcun dubbio in merito e la storia si legge con scioltezza, nonostante la promiscuità, gli intrighi, le trame e i complotti che annodano le vicende personali alla sorte della repubblica. Su quello Howard Fast tende a calcare la mano, mettendo in risalto di volta in volta le contraddizioni di Cicerone, Gracco e (più di tutti) di Crasso che rimangono comunque angosciati, nonostante la vittoria, la terrificante repressione contro i ribelli e la damnatio memoriae perché Spartaco ha assunto lo status di leggenda che, ormai, per le condizioni in cui versa la repubblica, è qualcosa in più di un fantasma. È un segno del destino.
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