Ogni personaggio se ne porta dietro un altro, come se la disgregazione delle storie personali dovesse comporsi in una sequenza sincopata di incroci collaterali, le vite saldate a due a due da segmenti dentro una sorta di rete invisibile e casuale. Il denominatore comune di The Free è la fatica di vivere in America, assediati dalla solitudine che imperversa come un virus a cui pare non esserci rimedio. È la dimensione in cui vivono (e muoiono) i personaggi di The Free, a partire da Leroy Kirvin, già dall’incipit, rappresentante di un’intera nazione di reduci e veterani delle guerre americane. Sconvolto dall’esperienza militare, Leroy tenta il suicidio e si ritrova immobilizzato e intubato in un letto di ospedale. Nell’infelice posizione, Leroy introduce Freddie McCall e Pauline. Freddie lavora nella casa famiglia dove era ospite dopo essere tornato, ferito, dall’Iraq. È separato, ha due figlie, una delle quali ha un costante bisogno di cure mediche, una questione spinosa con un welfare ridotto ai minimi termini. Per far fronte a tutti i conti, Freddie, ha una seconda occupazione nel negozio di vernici di Pat Logan, il classico figlio di papà imbelle e incapace. Pauline è l’infermiera che accudisce Leroy, non meno di un padre disturbato e irascibile a cui è legata da “un ineluttabile senso di responsabilità”. A sua volta Pauline incrocia Jo, che smuove in lei un senso di pietà e di solidarietà: “C’erano state delle volte, quando aveva iniziato a fare l’infermiera, in cui si sentiva sopraffatta dai suoi pazienti. Si sentiva sommersa e intrecciata alle loro vite. Aveva impiegato anni per costruirsi un muro di protezione, e a volte aveva ancora lo stesso problema. Adesso si concedeva solo qualche attimo di cedimento, poi trovava il modo di ricomporsi alla svelta. Ma quella ragazza le ricordava troppo se stessa e il modo in cui si sentiva alla sua età. Sola e inascoltata e indesiderata e insignificante”. Jo, che poi si scoprirà chiamarsi Carol, fa parte di una una pattuglia di outsider, tossici e disperati. Le sequenze, a cascata, sono intervallate dalla presenza onirica di quello che resta della coscienza di Leroy che, nella sua infermità, “aveva la costante sensazione di precipitare e le uniche cose che riusciva a vedere erano le cose dell’inferno”. Nel contrasto appaiono anche la fidanzata, Jeanette, e la madre Darla, che lo assiste leggendogli romanzi di fantascienza. Un cappa tristissima li avvolge tutti come se fossero incastrati in una disperazione da cui non sanno come liberarsi. L’attenzione è scrupolosa, ma anche spietata, perché Willy Vlautin non concede nulla ai suoi personaggi, che arrancano a fatica dentro vite con due lavori, avvolti nell’indifferenza, ospiti in malinconiche camere di motel e in auto che perdono letteralmente i pezzi per strada e che si ritrovano a dormire in un sacco a pelo perché non hanno pagato le bollette del gas. In The Free c’è un’umanità che vive ai margini, ai limiti dell’indigenza, eppure è travolta dalla storia, sia essa il riflesso dell’ennesima crisi economica o di un lontanissimo conflitto nel deserto del Medio Oriente: la luce invernale, aspra e tagliente, porta il marchio di un sano, indiscutibile realismo. C’è il fantasma di Raymond Carver che aleggia in The Free e si addensa nel romanzo, come se fosse una catena di racconti che si succedono senza soluzione di continuità. Le atmosfere sono livide e dure perché forse ha ragione Leroy Kirvin quando pensa che “forse la gente si consuma, semplicemente”, eppure, tra tutti, Freddie e Pauline riescono a vedere un futuro, una speranza anche nel bel mezzo di una desolazione senza via di fuga. Willy Vlautin è molto coraggioso nel raccontare i tentativi di tenere insieme i pezzi, l’insistente ricerca di una ragione per credere ancora e per andare avanti, affondando le mani nell’America di oggi, incompiuta e dolente. Un romanzo scomodo e necessario.
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