lunedì 25 giugno 2018

Tim O'Brien

Gli uomini del tenente Jimmy Cross affogano nella merda, saltano sulle mine, vengono colpiti dai cecchini e dai mortai, bruciano nella polvere e marciscono nella pioggia, e nella noia. Vivono di superstizioni, di paura e di tutto quello che si portano dietro. L’elenco materiali, delle armi, dei protocolli, delle tempistiche, dei codici, dei gesti e delle scelte previsti dalle “procedure operativa standard” è comprensivo di tutte le “cose” che i soldati devono portarsi dietro, in ogni condizione e sotto il fuoco nemico, e quando provano ad abbandonarle lungo i sentieri del Vietnam perché superflue, pesanti e inutili, le vedono ripristinate dagli elicotteri. Una plateale assurdità che si somma a qualcosa che “non era battaglia, era soltanto una marcia infinita, di villaggio in villaggio, senza scopo, senza che si conquistasse o si perdesse niente”. Una prova di forza insensata che spacca l’Americain modo irreversibile. Tim O’Brien rappresenta bene la frattura, che nasce ancora prima del conteggio quotidiano delle vittime. Parte proprio dalla chiamata alle armi: nella sua mancata diserzione in Canada, “tutto si rimescola, i cliché si confondono con le emozioni e alla fine non riesci più a distinguere gli uni dalle altre”, e alla fine decide di arruolarsi per inerzia. Ben presto la guerra si rivela per intero una “questione di postura e trasporto, sgroppare era tutto, una specie di inerzia, una specie di vuoto, un ottundimento del desiderio e dell’intelletto e della coscienza e della speranza e della sensibilità umana”. Dentro quella bolla si sviluppa un proliferare continuo di storie che servono a “rendere presenti le cose”, a sopportare la “vita notturna” e a raccontare “le vite dei morti”. Come a suo tempo Dispacci di Michael Herr, anche Le cose che portiamo cerca di spiegare “la sensazione di un crepuscolo permanente” attraverso le pieghe del linguaggio, ed è lì che si rivela un romanzo scomodo, spiazzante e sempre attuale. Con i continui cambi di prospettiva, che diventano reiterazioni insistenti, lascia attoniti per le modalità di interpretazione e per la sincerità nel mostrare lo stupore davanti “a qualcosa di essenziale, qualcosa di inedito e profondo, un pezzo di mondo talmente scioccante da non avere ancora un nome”. A quel punto diventa evidente che “la particolarità di una storia è che mentre la racconti la sogni, nella speranza che allora anche gli altri possano sognarla insieme a te, e in questo modo il ricordo e l’immaginazione e il linguaggio si fondono per creare spiriti nella mente. C’è l’illusione dell’essere vivi”. Se le storie servono a sopravvivere più di un M16 carico e pronto a sparare, la distorsione della realtà generata dalla guerra resta la ferita più grave, e non guarisce nemmeno quando tornano a casa perché anche Tim O’Brien, proprio come cantava Bruce Springsteen nel finale di Born In The U.S.A., spiega che non c’è nessuno posto dove correre, nessun posto dove andare. Rimangono “le cose che gli uomini si portano dentro. Le cose che gli uomini fanno o sentono di dover fare”, e non sono molte. Tim O’Brien comincia allora un lungo cammino a ritroso perché “raccontando storie oggettivi la tua esperienza. La separi da te. Fissi determinate verità. Altre ne inventi”. Sono quelle Le cose che portiamo e che condurranno Tim O’Brien a rivedere se stesso, a ritrovare il Timmy dell’infanzia fino a tornare in Vietnam in un pellegrinaggio nei luoghi dei caduti, insieme alla figlia sapendo che “il problema del ricordare è che non dimentichi. Il materiale lo prendi dove lo trovi, ossia dalla tua vita, all’intersezione fra passato e presente. Il traffico dei ricordi confluisce in una rotatoria dentro la testa, e lì continua a girare in tondo per un po’, ma ben presto sopraggiunge la fantasia e il traffico si mescola e schizza via per mille strade diverse. Come scrittore, tutto quello che puoi fare è sceglierne una e buttarti, mettendo giù le cose man mano che ti vengono incontro. Ecco la vera ossessione. Tutte quelle storie”. Non rimane molto altro.

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