giovedì 28 giugno 2018

Harold Bloom

La monumentale ricerca di Harold Bloom comincia dal tentativo di definire il canone come “una scelta tra testi in lotta per la sopravvivenza” e, passo dopo passo, giunge alla comprensione che “il desiderio di produrre grande scrittura è il desiderio di essere altrove, in un tempo e in un luogo propri, in un’originalità che non può non mescersi con retaggio e ansia di influenza”. Quel senso di aspettativa, enorme e ingombrante, è implicito nell’idea stessa di canone che infatti è considerato “un’ansia realizzata, esattamente come qualsivoglia robusta opera letteraria è l’ansia realizzata del suo autore. Il canone letterario non ci battezza dandoci accesso alla cultura; non ci affranca dall’ansia culturale. Anzi, conferma le nostre ansie culturali, ma contribuisce a dare loro forma e coerenza”. Nella formazione del canone occidentale, i nomi ricorrenti scelti da Harold Bloom sono Cervantes (a partire dalla definizione di Unamuno: “Grande era la follia di Don Chisciotte, e grande era perché la radice da cui cresceva era grande: l’inestinguibile brama di sopravvivenza, fonte delle più stravaganti follie come pure degli atti più eroici”), Dante, Ibsen, Jane Austen, Tolstoj, Freud, Joyce, Borges, Neruda, Pessoa, Kafka, Virginia Woolf ed Emily Dickinson, Montaigne e Molière e Walt Whitman. Per ciascuno di loro, Harold Bloom identifica e attribuisce “con ogni evidenza il fenomeno di una stupefacente eccellenza letteraria, di potenza del pensiero, caratterizzazione e metafora tale da sopravvivere trionfalmente a traduzioni e trasposizioni e da catturare l’attenzione praticamente in ogni cultura”. La linea è chiara e coerente perché secondo Harold Bloom “uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama: padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva”. Un discorso che vale per tutti, anche se sembra di capire che in quello che viene chiamato Il canone occidentale, Shakespeare occupa una posizione superiore e in gran parte irraggiungibile visto che “chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario”. Shakespeare, una vera ossessione  per Harold Bloom, è più di un termine di paragone: è una presenza assidua, e torna anche nella “conclusione elegiaca” che chiude Il canone occidentale ricordando ancora una volta che “ogni robusta opera letteraria creativamente fraintende e pertanto interpreta erroneamente il testo o i testi precursori. Un autentico scrittore canonico può o meno interiorizzare l’angoscia per la propria opera, ma ha scarsa importanza: l’ansia è tutt’uno con l’opera robustamente compiuta”. Da lì, con una ricchezza sublime di voci e connessioni, il canone si propone come un’istituzione di equilibrio tra l’aspetto sovversivo della scrittura e la necessità si inserirsi in una tradizione che “non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l’inclusione nel canone”. La disquisizione sulla natura del canone si allarga a comprendere la memoria (che “è sempre un’arte”) e la lingua (“Il significato di una parola è sempre un’altra parola, dal momento che le parole sono simili ad altre parole più di quanto possano esserlo a persone o cose”), accettando infine che, pur nella maestosità delle motivazioni e delle speculazioni, Harold Bloom è il primo ad ammettere che “non è la letteratura che ha bisogno di essere ridefinita. Chi non sia in grado di riconoscerla quando la legge, da nessuno potrà mai essere aiutato a conoscerla o amarla di più”. È allora che il senso compiuto del canone si restringe all’essenziale, ovvero alla drastica consapevolezza che “chi legge, deve scegliere”. Non c’è niente di più vero.

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