domenica 27 dicembre 2015

Don Winslow

Sempre più crudeli, più efferati nell’infliggere torture, mutilazioni, umiliazioni, sofferenze. Tutti, senza distinzione: non c’è salvezza, non c’è redenzione nell’atroce scia di sangue che Il cartello si lascia alle spalle. E’ una vera e propria guerra, spietata e insensata che, come tutte le guerre moderne dal ventesimo in secolo in poi, non distingue tra soldati e civili, chiunque è un bersaglio, anche se mascherati come vittima collaterale o qualsiasi altro eufemismo venga usato. La vendetta è tutto, il potere della morte è tutto e quello che resta è il deserto e città popolate da fantasmi, con Ciudad Juárez in cima alla lista. Don Winslow spiega molto bene come nasce la guerra per e contro il traffico di droga, la condizione apocalittica del Messico moderno (né più né meno di quello antico) e l’attinenza alla cronaca e alla realtà (Il cartello è, de facto, un romanzo storico) colpisce, insieme all’abilità di rendere intellegibili i modus operandi dei cartelli, dei trafficanti, delle forze di polizia, dell’esercito, delle agenzie federali degli Stati Uniti, degli agenti sotto copertura, dei cambiamenti di ruolo e di strategia, delle trasformazioni delle alleanze, delle tregue e degli scontri in un’orgia di inaudita violenza. Senza fine e senza senso perché, come si era già capito con Il potere del cane e come diventa ridondante con Il cartello, puoi anche vincere una guerra, ed essere il più potente, ma non sarai mai al sicuro. Art Keller non è estraneo alla sete di morte, alla devozione ai meccanismi (senza ritorno) della vendetta perché la guerra è in sé una vendetta, e soltanto quello. Ha varcato il confine già con Il potere del cane, mentre Il cartello porta lo porta un passo più in là. Avrebbe voluto restare nel suo buen retiro, ad allevare le api, ma sapeva che il passato, quel passato che non passa mai, l’avrebbe richiamato. Teneva una pistola nascosta tra le arnie ed è così che “Keller è diventato un blues, uno dei perdenti di Tom Waits, uno dei santi di Kerouac, un eroe di Springsteen sotto le luci delle autostrade americane e i neon dei locali. Un fuggiasco, un bracciante, un vagabondo, un cowboy che, pur sapendo di essere arrivato alla fine della prateria, continua a galoppare, perché non c’è altro da fare”. Quando Adán Barrera, il señor, torna in Messico, è chiaro che la lotta riprenderà: il traffico di droga, la malefica rotta dal produttore al consumatore, diventa (persino) relativo. E’ paradossale, ma è proprio così, Il cartello mostra una dimensione differente, e più allarmante. L’obiettivo è una forma di controllo del territorio e (quindi) di governo, con le sue suddivisioni (le plaza) e le sue tasse (il piso). Questo è il messaggio che si allunga attraverso Il cartello. E’ una partita a scacchi, fragile e pericolosa, che si allarga a macchia d’olio dal Messico, anche se l’epicentro resta lì. Solo che è una scacchiera dove la separazione tra i bianchi e i neri non è così chiara e le mosse delle pedine non sono mai corrette. Non si tratta (soltanto) delle zone d’ombra: è che capita con una certa frequenza che i bianchi diventino neri e i neri diventino bianchi. I ribaltamenti di fronte sono repentini: con un cambio di alleanza, un matrimonio, una fuga, un accordo, un tradimento. L’unico aspetto che rimane inalterato è il nodo che unisce Art Keller e Adán Barrera, visto che uno è la nemesi dell’altro. Art Keller lo insegue come una vocazione, un’ossessione, una meta che è lo scopo della sua vita e su cui giocare la carta della morte, la sua e quella di Adán Barrera. Attorno agli opposti estremi, Don Winslow vira tutto con il ritmo forsennato di un thriller che lascia senza fiato: spietato, serrato, trascinante Il cartello è un romanzo epico che racconta una realtà tragica.

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