venerdì 11 dicembre 2015

John Trudell

John Trudell lo chiamava Rant And Roll, proprio come la canzone che apriva Johnny Damas And Me. Un modo di intendere l’uso della parola, della poesia e della musica che le riassume in un solo corpo con uno spirito combattivo distinto da “umiltà e gratitudine”. Per essere quello che è stato, libero, coraggioso, sincero, per dire quello che ha detto, ha pagato un prezzo inimmaginabile, inseguito e perseguitato come ogni ribelle, ammirato e difeso da tutti gli outsider, una nuova tribù in cui si è riconosciuto e che l’ha adottato. Kris Kristofferson lo definiva “un pazzo lupo solitario, un predicatore, un guerriero pieno di paura e divertimento e risate e amore. E’ reale. La giustizia è un fuoco che brucia dentro di lui. Il suo spirito urla per quello e lo rende pericoloso”. La sua poetica è sempre stata limpida e lineare: nelle canzoni, nei versi, nei discorsi. L’uomo e la donna (la donna, soprattutto) erano sempre il cuore dell’universo delle sue riflessioni, insieme alla terra, con l’imperativo di “trovare un modo per comunicare i nostri pensieri, la nostra resistenza e la nostra coscienza”, per difendersi dalle menzogne, dall’avidità, dallo sfruttamento economico, dalla disinformazione, dalla decadenza e da tutto ciò che alimenta la Rich Man’s War. Non c’era niente di esotico o di mistico nel suo salmodiare, cantava con una semplicità profetica che ilGrafitti Man riassumeva così: “Sono solo un essere umano che prova a esserlo in un mondo che sta perdendo molto rapidamente la comprensione degli esseri umani. E’ quello di cui abbiamo assolutamente bisogno: esprimere i nostri sentimenti e capirci, conoscerci, ritrovarsi. Dobbiamo farlo, non c’è alternativa, non c’è possibilità di nascondersi. Essere quello che diciamo e dire quello che siamo: questa è la via”. All’orizzonte non c’era sconfitta o vittoria, né premio o condanna, per John Trudell esporsi, esprimersi non era nemmeno la cosa giusta, era l’unica: “E’ sempre sembrato che il meglio che potessimo fare non era mai abbastanza, in qualche modo non si arrivava mai nei posti che stavamo cercando, domani il vicino davanti a noi, il nostro passato nel tempo, con le risate di ieri che riecheggiano nelle ombre di promesse dimenticate, lottiamo per andare avanti prendendo ogni giorno, uno alla volta, riparando e spezzando, creando modelli per la nostra vita”. John Trudell si ostinava a non lasciarsi incastrare in un’identità, in una forma, a inseguire una disperata essenzialità: “Siamo una generazione che non ha poeti. Gli unici poeti con cui possiamo confrontarci sono morti e non ne abbiamo altri perché i poeti che sono diventati rock’n’roll star non vengono riconosciuti come poeti, ma come songwriter, ma comunque c’è un posto dove poter recitare le nostre parole nella nostra realtà. E infatti qualcuno mi chiama poeta. Qualcun altro dice che sono un militante. C’è anche chi sostiene che la mia poesia e la mia musica siano politiche. Altri dicono che parlano dello spirito del mio popolo. Non mi ritrovo in tutte queste etichette. Probabilmente c’è un po’ di tutto ciò, ma sento di essere qualcosa in più di ogni singolo aspetto. E’ quello che tutti noi siamo. E’ ciò che ci rende umani”. La voce dei Blue Indians non è stata soltanto una Tribal Voice, aveva una dimensione universale, un canto che è stato primordiale e rock’n’roll, in questo incontrollabile, come ammetteva lo stesso John Trudell: “Ovviamente sapete che sono impazzito. Sono impazzito molto tempo fa. Fidatevi, è il posto più sicuro”. Buon viaggio, Crazy Horse.

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