giovedì 2 novembre 2023

Neal Barrett Jr.

Secondo Joe R. Lansdale “la letteratura americana nella sua espressione migliore, ha uno stile molto naturale, un particolare senso dell’umorismo e l’infinita speranza che domani le cose possano andare meglio”. Tutto sommato è proprio lo spirito che spinge Douglas Hoover a lasciare tutto. È refrattario al lavoro (“Il sistema aveva delle falle, ma forse dietro c’era una logica”) e al matrimonio che è arrivato al capolinea. Pensa in continuazione agli aerei della prima guerra mondiale e a un barlume di emozione legato all’infanzia, forse il motivo principale del suo viaggio. Una meta dopo l’altra, prende forma uno strampalato road movie: tra stanze di motel, strade senza nome, incontri fugaci e inseguimenti spericolati. Un bel po’ di movimento che presta il fianco a un frenetico sovrapporsi di allucinazioni, ricordi, divagazioni e voli pindarici in cui Neal Barrett Jr. sfodera tutta una gamma di tonalità, con un gusto per l’iperbole davvero trascinante. Il nonsense punteggia tutte le frasi e, lungo un elenco senza fine di cittadine del Texas, non succede molto altro se non l’ossessione per Sue Jean, una ragazza trovata da Doug sulla strada, e un’aleatoria ricerca di se stesso. Sue Jean, poco più che adolescente, è capace di viaggiare nuda, dando spettacolo e solleticando ripetizione Doug, sa fare benissimo le uova strapazzate ed è per lui una specie di impertinente voce della coscienza: “Le lezioni sono incentrate su un unico argomento: te stesso. Chi sei e cosa vuoi fare di te”. È proprio così visto che Doug è rimugina spesso e volentieri sulle sue condizioni: “Riconoscere i propri limiti ha pro e contro, riflette. Qualsiasi cosa non vada in lui, ora si sistemerà. Oppure no. Sapere chi sei non significa che la tua testa sia lucida al punto da fornirti già tutte le risposte”. Il suo pensiero è una composizione di “rivelazioni e caos, introspezione e disordine in uno stupido miscuglio che pareva comunque funzionare”, definizione che, per estensione, vale anche per tutta La banda dell’altro mondo. La congrega di fissati che ha come amici sono “personaggi che sognano in piccolo, convinti di sognare in grande”. Una teoria di nomi e cognomi avvolge ogni mossa di Doug, affolla la sua vita e comprende il fatto che “cowboy mistici e cameriere di bar nelle stazioni di servizio per camionisti sanno che il cambiamento è solo un’illusione. Sanno che starsene immobili è il modo migliore per allontanarsi il più possibile da dove ci si trova, faresti meglio a trovarti una buona birra e una canzone preferita e accontentarti”. La colonna sonora annovera Hank Williams, Johnny Cash, Tex Ritter, Beatles, Janis Joplin e Willie Nelson e la corsa nel vuoto è un caos di suggestioni ed esagerazioni. L’incertezza regna sovrana: “Non sapeva se queste cose fossero davvero successe o se le avesse lette in qualche libro. Gli sembrava di sì, ma forse no”. Poi, una volta tornato a casa, per Doug diventa tutto piuttosto riduttivo: “Sembrava tutto un po’ troppo facile. Voleva delle rassicurazioni. Voleva delle certezze. Voleva andare a letto e fare un po’ di sano casino e dimenticarsi tutto. Sentì il desiderio di andare in cucina a prepararsi uno spuntino”. Doug ha un rapporto plastico con i sogni e le visioni che si dipanano senza sosta, ma alla fine le aspirazioni sono ridotte: “Voglio prendere più pesci. Voglio montare modellini di caccia tedeschi in scala 1 a 32. Voglio far crescere rampicanti sui muri di casa”. È vero, come dice Joe R. Lansdale, che La banda dell’altro mondo “trasuda America da ogni poro”, e il flusso verbale è ininterrotto, psichedelico e pirotecnico, ma è anche abbastanza inconcludente e allora bisogna ricordare quello che scriveva Carl Sandburg, citato più volte da Neal Barrett Jr.: “Quando una nazione crolla o una società perisce, una condizione sarà sempre identificabile: avevano dimenticato da dove erano venuti”. Come dire, si possono sfoderare tutti i numeri possibili e impossibili, ma per quanto immenso, lo spazio non è infinito e da qualche parte bisogna pur arrivare.

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