martedì 13 agosto 2019

Upton Sinclair

Alla fine del diciannovesimo secolo, i macelli di Chicago sono veri e propri gironi danteschi e le descrizioni delle lavorazioni sono drammatiche: Upton Sinclair non rinuncia a nessun particolare per illustrare come lo sfruttamento indiscriminato macini animali, uomini, famiglie, speranze. Pagine e pagine in cui la spietatezza dell’industria viene centellinata giorno per giorno nel creare un mondo a parte: a Packingtown, come viene chiamato il distretto dei macelli, non c’è altra legge al di fuori del profitto, un’ansia feroce che si tramuta in condizioni di lavoro (e non solo) bestiali. Ricorda Mario Maffi nella scrupolosa e istruttiva introduzione: “Orari sfiancanti, esasperata produttività, lavori pericolosi (la setticemia in agguato a ogni colpo di coltello che sfuggiva di mano), ripetuti incidenti mortali o invalidanti, malattie professionali (tubercolosi in primis). E paghe  in calo costante: nel 1884, cinque fenditori (splitters) trattavano 800 bovini in dieci ore (16 ciascuno ogni ora) per 45 cents orari a testa; dieci anni dopo, in quattro ne trattavano 1.200 (30 ciascuno ogni ora), ma la paga oraria era scesa a 40 cents. La manodopera femminile, poi, era super-sfruttata, ricattabile e ricattata, soggetta a ogni genere di arbitrio dei capisala, con l’alta incidenza di una prostituzione imposta dalla miseria assoluta; e, come agli albori della rivoluzione industriale, i bambini davano un tragico contributo alla grande macchina in funzione giorno e notte”. Questa la realtà storica che Upton Sinclair convoglia in un romanzo densissimo, stratificato e gonfio di indignazione. Tutto ruota intorno a Jurgis Rudkus e ai suoi parenti, immigrati dalla Lituania fuggendo  la carestia e inseguendo un fantomatico e ingannevole sogno americano. Jurgis ha una fiducia incrollabile nella sua forza fisica, nei legami famigliari e nelle potenzialità del lavoro in sé, per quanto grezzo e limitato. Ogni ostacolo, dai cavilli burocratici alle clausole contrattuali, dalle intemperie del clima di Chicago alle malattie e alla fame, è visto come una tappa da superare per l’affermazione e il lavoro è l’unica fede che Jurgis trasmette alle donne e ai bambini, mandati per le strade a fare gli strilloni. Con l’eroico sforzo di tutti, riescono a mettere in tavola un pezzo di pane e ad avere un tetto sopra la testa, ma non molto di più. In cima a tutte le sofferenze, Jurgis deve affrontare anche l’impudenza del capo della moglie che reagendo con un’aggressione (sacrosanta) lo porterà in carcere. Lo snodo e la frattura definitiva si producono proprio lì: Jurgis è la vittima designata che La giungla vuole inghiottire e nel processo che pare inevitabile prende forma la sua lunga metamorfosi, da operaio a hobo a delinquente a crumiro (le ultime due parti strettamente correlate) fino ad attivista. Il parossismo della narrazione cela e/o rivela un riflesso ideologico, ma la voce di Upton Sinclair è sicura nell’identificare ogni singolo passaggio. Senza lavoro, senza famiglia, senza casa, dopo aver perso tutto, Jurgis si ritrova a vagabondare per la città, vivendo di espedienti e poi saltando sui treni, prima trasformazione in hobo che dorme dove può e vive di elemosina. La vita nelle strade lo mette a contatto con i bassifondi criminali, quasi un sottoprodotto della società industriale e Jurgis si ritrova coinvolto in furti, truffe e rapine. Una deviazione contigua alla forza bruta di quello che Upton Sinclair chiama l’“esercito industriale” e che trova una sua naturale collocazione quando “gli onesti lavoratori” scioperano per i diritti più elementari e Packingtown diventa un’enorme ridotta dove i crumiri convivono in un’ambigua palude di corruzione politica e morale. È in quel momento che, grazie alla conoscenza con Ostrinski, un sarto che sta tessendo una tela di ribellione e solidarietà, Jurgis prende coscienza “di quell’America, di che cosa era stata per loro”. Una questione irrisolta tanto è vero che, a distanza di oltre un secolo, La giungla  resta la testimonianza concreta di un mondo, non molto lontano dal nostro, dove persino il dolore è un lusso.

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