L’opera omnia di Mark Strand costituisce un punto di riferimento insostituibile perché “la vita d’altro canto, non ci prepara a nulla, e non ci lascia via d’uscita”. È una considerazione che nasce spontanea fin dalle prime Note sul mestiere della poesia, che funzionano da introduzione, dove Mark Strand ricorda che “lo scopo di una poesia non è l’aprirsi, o il raccontare una storia o un sogno a occhi aperti; e tantomeno una poesia è un sintomo. Una poesia è se stessa e l’atto attraverso il quale è nata”. Se c’è una costante nel flusso indomabile di versi, e prosa, è la certezza che “la forma si manifesta con la massima chiarezza nell’apparato di argomentazione e immagine o, in altre parole, di trama e figure del discorso”. Si capisce allora l’assidua attenzione al vento, alla notte, all’estate, richiamati di volta in volta in Dentro la storia (“Adorava non sapere dove stava andando, e il buio e il vento fondo che lo spingevano lontano lontano erano come il suo desiderio”), in Porto oscuro (“Vorrei uscire e trovarmi sull’altra sponda, ed essere parte di tutto ciò che mi circonda. Vorrei trovarmi in quella solitudine di cose mute, nella squinternata compagnia del vento, trovarmi senza peso, senza nome”) e in A passeggio con te (“Viviamo vite instabili, e restiamo in un certo posto solo quanto basta a renderci conto che non gli apparteniamo. Perfino le nuvole, che si fermano silenziose sopra di noi sono nebulose pur senza assomigliarci e, assalendo l’aria vuota, non prendono in considerazione la nostra solitudine attuale. Ma poi, perché dovrebbe importarci? Ce ne stiamo già andando, come a dire: noi non siamo qui, noi siamo sempre stati lontani”) o, ancora, in Luminismo (“E benché sia stato breve, esiguo, e nulla degno di essere trattenuto tanto a lungo, lo ricordo, come fosse venuto da dentro, uno degli scenari che la mente allestisce per sé, notte dopo notte, solo per separarsene, rapida e senza preavviso”). Nella sua definizione temporale, istante per istante, la poesia di Mark Strand è l’espressione continua di un desiderio estremo di conoscere la fine ultima e rispettare la vita, sapendo che “è impossibile dire che forma assumerà il tempo” (L’acquilone) e che “non possiamo dare per scontato né noi stessi né ciò che ci appartiene” (Violento temporale). Alla poesia spetta trovare uno spazio in quegli “attimi negli attimi” (Nevicata) che forse sono riconoscibili in una “vita tranquilla” che “non dà preavvisi. Sopravvive alle atmosfere dello sconforto e compare, a piedi, non riconosciuta, senza offrire nulla, e tu sei lì” (La vita tranquilla). È proprio dove il poeta e la poesia coincidono e Mark Strand con un’annotazione Da un diario perduto confessa, con grande sincerità: “Che mi sia sottratto agli abusi del tempo significa poco o nulla. Io son un luogo, un luogo in cui le cose si radunano, e poi volano via in mille direzioni”. L’indeterminazione dipende dal atto che “forse una poesia in definitiva è una metafora di un’entità sconosciuta, il suo trovare un modo per guarire” e che il suo scopo, ammesso che ne abbia uno, è lasciare qualcosa quando “noi ce ne saremo andati, parlando ad alta voce a noi stessi, ripetendo le parole che sono sempre state usate per descrivere il nostro destino” (La famosa scena). In conclusione, come scrive in Senza titolo, c’è solo “la polvere di una passione, il buio sgretolarsi di immagini lungo la pagina, non resta altro” e quasi a richiamare l’alleanza di complici e sodali dispensa un florido elenco di dediche e citazioni tra cui Charles Simic, Charles Wright, Leopardi, Čechov, Shakespeare, Wordsworth, Robert Penn Warren, Walt Whitman, Elizabeth Bishop, Derek Walcott, Joseph Brodsky, John Ashbery, Jorie Graham, Octavio Paz, Harold Bloom e Wallace Stevens che resta l’unico termine di paragone di una poesia tanto affascinante quanto implacabile.
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