I personaggi di Jesus’ Son vivono in un’apnea oppiacea: si chiamano Dundun, Blue, Wayne, Georgie, Michelle, Benny, Stan, Kid Williams e Jack Hotel, che in realtà dovrebbe essere George Hoddel, ma è chiaro che i nomi sono variabili e intercambiabili, almeno quanto i destini. A livello preliminare ne sono coscienti e lo ammettono in prima persona “perché eravamo convinti della nostra tragicità, e bevevamo”. L’alcol è solo l’inizio: il ritmo tossicologico porta a intravedere e a sovrapporre realtà parallele, differenti e contrastanti. Le proprietà allucinogene inducono a comportamenti maniacali e ossessivi che culminano nel voyeur di Beverly Home, che Denis Johnson sa rendere con una scrittura screziata, spigolosa, irta di deviazioni eppure essenziale, scheletrica, nuda e, nell’insieme, visionaria. Le dimensioni delle esistenze restano inafferrabili come se la chimica dell’eroina, in cima a una piramide di sostanze stupefacenti, scombinasse i piani. L’alienazione dei protagonisti è duplice: da una parte l’incongruenza verso “una vita normale e felice”, come si legge in Beverly Home, il frammento conclusivo di Jesus’ Son, ovvero l’impossibilità di intravedere una forma di appartenenza, che viene tradotta in una catena di rimpianti e dissoluzioni, ammessa senza esitazioni: “E a ogni passo mi si spezzava il cuore per la persona che mi avrebbe amato. E poi mi ricordavo che a casa avevo una moglie che mi amava, e più tardi che stavo con una bella ragazza alcolizzata che mi avrebbe reso felice per sempre. Ma ogni volta che entravo in quel posto c’erano facce offuscate che permettevano tutto, e che subito dopo rivelavano la propria monotonia e ordinarietà, alzando lo sguardo su di me e commettendo lo stesso errore”. D’altra parte le bizzarre, comiche e tragiche escursioni dovute all’uso delle droghe, portano a vivere in una dimensione inafferrabile, che poi è quella della dipendenza. Nella migliore delle ipotesi “pensate di galleggiare rannicchiati nell’oscurità”. Le vite sono sospese su un sottilissimo filo di ragnatela, su cui pesa il piombo della dissoluzione dei sentimenti, delle emozioni: quella condizione “heavy metal”, proprio nel senso voluto da William Burroughs, è ben rappresentata dalla scrittura di Denis Johnson che taglia le frasi e i dialoghi rendendoli sferzanti. Una sensazione “minerale”, dove l’empatia è in costante e arida siccità. Una deformazione della prospettiva ben rappresentata nelle allucinazioni ospedaliere, una componente non relativa di Jesus’ Son: sono un appariscente contrasto alla predominante la sensazione di un disastro incombente che viene evocata così: “E a volte nel deserto si formava una tempesta di sabbia, così gigantesca da sembrare un’altra città: una nuova epoca terrificante che si avvicinava, offuscando i nostri sogni”. La deriva umana è inarrestabile, i protagonisti sanno che “non c’è niente di più profondo della merda in cui siamo adesso”, e sanno che non c’è modo di tornare indietro. Infatti, c’è qualcosa di beffardo quando Elvis canta Follow That Dream: conoscendo i suoi trascorsi e la sua fine, anche quella (magnifica) canzone contribuisce alla sensazione costante di stare sul filo del rasoio che è la cifra delle storie allucinanti di Denis Johnson. Nello stesso modo Jesus’ Son è un insieme narrativo indefinibile: è un po’ una serie di racconti collegati da fili invisibili che si rivela anche un po’ un romanzo. E comunque deve tutto a Lou Reed: il titolo, l’epigrafe di Heroin e soprattutto la tensione formato “luce bianca, calore bianco” che lo distingue. Usare con cautela, si tratta di materiale infiammabile.
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