In cerca di lavoro un ragazzo di tredici anni viaggia dall’Alabama, dove lascia una famiglia con altri nove fratelli, verso il Texas. La tenera età non deve stupire perché, come ammette lui stesso, “non appena imparai a camminare, fui trattato come un adulto”. Lo accompagnano Cadillac e Rance, i due “cretini” (che spariscono presto, come è giusto che sia) ed Ernest Roughton, a cui il padre ha affidato il compito di tutelare il figlio. Ernest lo chiama Skybo, ma il suo nome è relativo: è magro, sporco, stanco, affamato e si è ferito a un piede. Arrivati a Waco, il ragazzo viene notato da Anson Winters, tormentato discendente di una dinastia di pionieri e allevatori, che li assume tutti e quattro per raccogliere il cotone, in realtà, solo uno stratagemma per adottare lui. Per il ragazzo comincia una nuova vita: l’acqua è l’unica cosa che non è buona in Texas, per il resto trascorre nei campi soltanto qualche ora, poi viene ingozzato di cibo e accudito in tutti i modi possibili (fin troppo) da Anson e, ancora di più, da Lurie (la terza moglie). Conosce Big Jack, il capostipite della famiglia Winters, e i tre Little Jack, viene seguito passo per passo da Blunt, un indiano che funge da osservatore e guardiano, e deve assorbire tutte le nozioni del passato perché Chinaberry “era un luogo che pullulava di storie”. Mentre l’aggiornamento della famiglia si fa sempre più stringente, la tensione del romanzo sale in proporzione perché alla fonte c’è un figlio perduto, Little Johnnes, a cui Anson si era disperatamente dedicato, e il ragazzo è votato a diventare il suo sostituto, cambiando nome, e ritrovandosi in tutto e per tutto a diventare parte della famiglia Winters. Gli elementi gradevoli, le dimostrazioni d’affetto, le premure assidue (anche un po’ asfissianti) non possono nulla contro la nostalgia, che si presenta puntuale lasciando il ragazzo solo con i suoi dubbi e le sue lacrime. La soluzione non è semplice perché pone la storia davanti a un bivio e toccherà al lettore scoprire quale sarà la direzione finale. James Still non ammicca, non accenna e non usa alcun trucco. Fornisce tutti i dettagli per tratteggiare l’ambiente, le circostanze, il Texas: attingendo in parte alla propria autobiografia, in Chinaberry non soltanto traccia un quadro fedele dell’America rurale all’inizio del ventesimo secolo, ma costruisce un romanzo agrodolce, senza sbalzi o colpi di scena, accurato e misurato, in cui la sensibilità per i rapporti umani viene dispiegata con grande raffinatezza, mettendo in rilievo le conversazioni lungo i cavi telefonici, gli intrecci tra fidanzate, parenti, vicini di casa così come i modelli di automobili poi scomparsi nel tempo (Hudson, Marmon, Reo), le diverse lavorazioni nei campi, le abitudini domestiche e le caratteristiche naturali della zona. Descrizioni rigorose, puntuali, minuziose che costituiscono il tono e il ritmo di Chinaberry e sono i fondali perfetti per il punto di vista del ragazzo. È la sua la voce narrante, che mostra e illumina ogni singolo aspetto tra Chinaberry e Towerhouse, i due ranch in cui si svolge la storia ma d’altra parte si accorge, non senza un certo candore, di essere al centro di “un paradosso troppo grande e ingarbugliato da risolvere per un ragazzino di tredici anni”. In effetti quello che emerge con prepotenza è “un qualcosa di biologicamente inspiegabile: amore, questo il termine”, che però a Chinaberry nasconde un’ambiguità serpeggiante dato che, come si premura di avvisare James Still, “non riusciamo mai a scandagliare davvero fino in fondo nessuno, e soprattutto quanto c’è di oscuro e di nascosto nell’animo umano, che non sopporta d’essere riportato in luce perché sia riconosciuto”. Un romanzo singolare, magnetico e capace di toccare corde molto sensibili senza alcun sforzo o effetto speciale. Consigliatissimo.
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