mercoledì 21 giugno 2017

Henry Miller

In fuga dall’Europa, dove ormai la seconda guerra mondiale sta cancellando ogni illusione di civiltà, Henry Miller si siede al volante e macina diecimila miglia, convincendosi che “l’unico modo di vedere l’America è in macchina: così dicono tutti. Non è vero, naturalmente, ma suona bene. Non avevo mai posseduto una macchina, non sapevo nemmeno guidare”. L’idea del viaggio è risalire alla fonte, alle radici, solo che tra la nostalgia della cultura europea e l’insoddisfazione personale lo trasformano in un’odissea caustica. Il paragone tra Parigi e Mobile è impietoso, gli unici quartieri che lo affascinano sono quelli di Charleston e New Orleans dove l’influenza francese è palpabile, per il resto la sua considerazione per l’America è radicale, sprezzante, tranchant. In una lettera scrive: “Che paese meraviglioso l’America. Ti fotte a ogni passo”, e poi ci vuole un bel coraggio a definire Walt Disney “un maestro dell’incubo”, ma non a caso l’America autentica è soltanto quella in cui la presenza umana è insignificante, dove “c’è un enorme rettangolo che abbraccia porzioni di quattro stati, Utah, Colorado, New Mexico e Arizona, e è tutto incanto, stregoneria, illusionismo, fantasmagoria. Forse il segreto del continente americano è racchiuso in questo territorio selvaggio, impervio e parzialmente inesplorato”. E’ solo deserto, lì, e rende plausibile l’ipotesi che gli strali di Henry Miller fossero indirizzati verso l’umanità in generale più all’America, nello specifico. Dirà la stessa Anaïs Nin: “L’avventura di Henry è distruttiva, è una catastrofe, un sacrificio. Perché in questo viaggio non c’è niente di costruttivo, non fa altro che sputare in faccia all’America, come un predicatore che pronuncia un sermone infinito”. Come tutte le omelie, anche L’incubo ad aria condizionata contiene aspetti caricaturali e profetici in uguale misura, entrambi non trascurabili, soprattutto quando Henry Miller declama: “Non si fa un mondo nuovo cercando solo di dimenticare il vecchio. Un mondo nuovo lo si fa con uno spirito nuovo, con nuovi valori. Può darsi che il nostro mondo sia cominciato così, ma oggi è una caricatura. Il nostro mondo è un mondo di cose. E’ fatto di comodità e di lusso, oppure del desiderio di entrambi. Ciò che temiamo di più, di fronte all’incombente débâcle, è che saremo costretti a rinunciare ai nostri aggeggi, alle nostre carabattole, a tutte le piccole comodità che ci hanno dato tanta scomodità. Nella nostra condotta non c’è niente di coraggioso, di cavalleresco, d’eroico o magnanimo. Non siamo anime pacifiche; siamo timidi, affettati, schizzinosi e gemebondi”. Non di meno, il giudizio e la sentenza per e con gli americani vengono estesi verso l’intero genere umano: “Conosciamo soltanto una piccola frazione della storia dell’uomo su questa terra. E’ una lunga, monotona, dolorosa successione di catastrofici mutamenti che implicano a volte la scomparsa di interi continenti. Narriamo la storia come se l’uomo fosse una vittima innocente, un inerme partecipante alle casuali e imprevedibili rivoluzioni della natura. Forse lo era in passato. Ma ora non più. Oggi, qualunque cosa accada a questa terra, è opera dell’uomo. L’uomo ha dimostrato d’essere padrone d’ogni cosa: tranne che della propria natura. Se ieri era figlio della natura, oggi è una creatura responsabile. Ha raggiunto un punto di consapevolezza che non gli consente più di mentire a se stesso. La distruzione è ora deliberata, volontaria, autoprovocata. Siamo a un bivio: possiamo andare avanti o ricadere. Abbiamo ancora la possibilità di scegliere. Domani forse no”. Allora non poteva saperlo, Henry Miller, ma il dubbio lo risolveva già nella curiosa appendice. La fondazione Guggenheim gli aveva negato un contributo per L’incubo ad aria condizionata e per chiarire la “tradizione” delle borse, Henry Miller aveva pubblicato l’elenco del 1941 che, tra le altre amenità, ne comprendeva una a favore di tale dottor Aristid V. Grosse, farmacista, Bronxville, New York, per la “continuazione di studi sui prodotti del bombardamento neutronico dell’uranio, protattinio e torio”. Quel futuro l’avrebbe visto, dall’altra parte dell’oceano, guardandolo da Big Sur, senza peraltro cambiare opinione. Molti anni dopo, nel 1966, avrebbe detto, ancora: “L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu t’immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà a un’idea astratta”. Coerente, fino alla fine.

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