domenica 25 giugno 2017

Lydia Davis

Creature nel giardino, che incolla due raccolte di Lydia Davis, Samuel Johnson è indignato e Varietà di disagio, rappresenta un excursus più che sufficiente a cogliere l’essenza di uno stile unico e spiazzante. I suoi frammenti sono calembour, sciarade, rebus, giochi di parole minuscoli, persino sottili alchimie nell’uso del corsivo in Modi di ricordare (“Ricordati che sei polvere. Cercherò di tenerlo a mente”), piccoli enigmi come Perdere la memoria (“Mi chiedi di Edith Wharton. Sì, il nome mi suona familiare”), l’apologia di una scoreggia in Fare aria o una Storia orale (con singhiozzo), e non si capisce se Lydia Davis sia geniale o (soltanto) irriverente. Le sfumature fantastiche in La tribù bianca o l’horror in La paziente sottolineano alcune peculiarità proprie delle Creature nel giardino e insieme un’idea non molto edificante della società in cui viviamo a partire dalla Televisione, dove “tutto ha inizio con il puntino azzurro al centro dello schermo scuro, è allora che hai la percezione che le immagini ti arriveranno da molto lontano”. All’estremo opposto, perché Lydia Davis non si risparmia, le strutture hanno costruzioni più elaborate, fino all’eccesso di Verso sud, legge Worstward Ho un racconto che si sdoppia in un altro nelle note a piè di pagina. Tra l’altro svela, e non solo dal titolo, un punto di riferimento inevitabile nell’articolare un linguaggio ridotto al minimo, ovvero Samuel Beckett, che in Quello che è strano, via, definiva questa “grande necessità di parole senza osare finché alla fine lento riflusso dieci secondi, troppo veloce, trenta adesso, grande necessità senza osare finché alla fine lento riflusso trenta secondi sulla terra attraverso mille grigi che sprofondano nell’ombra”. E’ l’incomunicabilità trasposta nelle stesse frasi, ripetute, insistenti, come rappresentazione plastica e assurda di un dialogo impossibile. Lo spaccato è quello di coppie o famiglie scheggiate, fragili e divise, dove le parole sono un ostacolo, spesso insormontabile perché come scrive in La trasformazione “ci sono dei limiti alle cose che si possono accettare, persino se sono cose impossibili”. Lydia Davis riporta a terra le parole, dietro la maschera di “una disperazione leggera” che in realtà, è “autocoscienza”, come l’ha definita Jonathan Franzen, che in effetti risulta l’elemento determinante in Priorità o Propositi per l’anno nuovo, dove concede che “il mio proposito per l’anno nuovo è imparare a vedermi come un niente”. Non è un lavoro facile, in gran parte è un concentrato di Solitudine, titolo di quattro righe che si specchiano e si sovrappongono, un esempio lampante della scrittura di Lydia Davis (“Non mi chiama nessuno. Non posso controllare la segreteria telefonica perché sono rimasta a casa per tutto questo tempo. Se esco, potrebbe telefonare qualcuno mentre sono fuori. Allora quando tornerò potrò controllare la segreteria telefonica”) che poi sembra ripetersi come eco naturale di Compagne (“Ce ne stiamo sedute qui, io e la mia digestione. Io leggo un libro e lei smaltisce il pranzo che ho mangiato poco fa”). Senza alcun dubbio Lydia Davis e le sue scoppiettanti proposizioni sono Speciali, e nella sua ammissione, in qualche modo conclusiva, nel racconto con lo stesso titolo, c’è ancora una domanda spalancata: “Noi sappiamo essere molto speciali. Eppure continuiamo a cercare di capire in che senso: non in questo non in quello, in quale allora?”, ed è tutto. Prendere o lasciare.

Nessun commento:

Posta un commento