martedì 13 giugno 2017

Philip Dick

Philip K. Dick ha svolto un ruolo fondamentale nell’immaginario della seconda metà del ventesimo secolo e la sua influenza non si è ancora esaurita, anzi. Le sue visioni hanno anticipato soluzioni scientifiche e catastrofi tecnologiche, con punte di vera e propria profezia (come scriveva nel 1981 in Predizioni: “1985. Intorno a questa data, o prima, si verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in Unione Sovietica o negli Stati Uniti, in seguito al quale verranno chiuse tutte le centrali nucleari”) e interpretando con ammirevole lungimiranza argomenti di straordinaria complessità (e oggi d’attualità) quali la manipolazione genetica o la clonazione. Mutazioni è una raccolta ricca ed eterogenea, eppure molto valida nel rappresentare le forme del pensiero di Philip Dick, che si considerava narratore almeno quanto filosofo. La varietà delle forme contenute, dall’intervista alla recensione (tra i più citati Theodore Sturgeon, ammiratissimo, Ray Bradbury, Jules Verne, Harlan Ellison, ma anche songwriter come Jim Croce e Don McLean), dalle trame per romanzi in embrione alle bozze di alcuni capitoli, rappresentano con efficacia il percorso umano, intellettuale e letterario di Philip K. Dick che non è stato soltanto un (grandissimo) scrittore di fantascienza, ma uno sperimentatore a tutto campo. La convinzione partiva dall’inizio, dall’idea in sé: “Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. Ha avuto davvero la forza di immaginarsi altri mondi, e di tradurli in una scrittura densa, particolareggiata, florida e motivata. Non ha avuto la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o semplicemente razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi, come ampie parti di Mutazioni confermano, si è prodigato nello studio, nell’analisi e nella ricerca per consolidare le fondamenta dei suoi viaggi psichedelici. Convinto che “la fantascienza presenta in forma narrativa una visione eccentrica della normalità o una visione normale di un mondo che non è il nostro”, si è distinto come outsider e dissidente perché, come recita una delle note biografiche riportate da Mutazioni: “Nei suoi romanzi cerca di dar voce soprattutto alla lotta contro tutte le forme di oppressione del libero spirito umano: qualsiasi tirannia, dall’assuefazione alle droghe allo stato di polizia, alle tecnologie per la manipolazione delle coscienze. Il cittadino comune, privo di potere economico e politico, è l’eroe di tutti i suoi romanzi, oltre a essere il suo eroe personale, e la sua speranza per il futuro”. Anche nascosto tra androidi e viaggi nel tempo e allucinazioni assortite, è sempre quello il tema ricorrente nei romanzi di Philip Dick nella convinzione che “l’uomo continuerà a fare piani e a tramare anche tra le rovine: il suono della sua voce si farà sempre risentire”. Mutazioni, pur nella limitatezza dell’approfondimento offre una visione completa delle diverse aspirazioni di Philip K. Dick, della della sua lucida follia, della sua voce incomparabile, non è nemmeno tutto. L’immagine di Philip K. Dick che scrive in continuazione, senza sosta, per sbarcare il lunario (“Ho scritto e venduto ventitré romanzi, e sono tutti orribili, tranne uno. Ma non so di preciso quale sia”) è forse il suo ritratto più romantico, e sincero, che lui traduceva così: “Ecco come sono: paralizzato dall’immaginazione”. Una definizione perfetta, a cui si può aggiungere solo quello che scriveva Paul Williams nel 1969: “Vi dirò... Philip K. Dick avrà, sulla coscienza di questo secolo, più influenza di William Faulkner, Norman Mailer o Kurt Vonnegut”. Se non altro, è in bella compagnia.

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