giovedì 18 maggio 2017

Gore Vidal

Scorrendo le pellicole che più ha amato, in Remotamente su questi schermi Gore Vidal si lascia convincere da una considerazione che, pur partendo dall’intima natura cinematografica, si rivolge a un orizzonte decisamente più ampio: “Non penso che nessuno abbia mai trovato allarmante l’idea che non importa tanto quello che le cose sono, quanto come esse vengono percepite. Percepiamo, per esempio, per esempio il sesso non tanto come esso è nella sua dimostrabilità, quanto come pensiamo debba essere, una volta da noi accuratamente distorto attraverso le chiese e le scuole, la stampa e, con esultanza, il cinema, il quale in fin dei conti è la sola convalida alla quale tutto il tedioso mondo anteriore della realtà, deve sottoporsi”. Il sesso non è l’argomento principale di Remotamente su questi schermi. La spinta viene dalla (prima) guerra del Golfo perché, come scrive Gore Vidal “nel febbraio 1991, la storia è stata inventata davanti ai nostri occhi”, e a quella (e alla politica), sovrappone l’autobiografia e il cinema (nonché la televisione e l’immagine in tutte le sue estensioni). I tre strati vivono in simbiosi, non sempre pacifica, ma con un ritmo indolente e costante, punteggiato da una sana ironia, Gore Vidal li associa in modo spontaneo, senza soluzione di continuità. La saga del complesso albero genealogico della sua famiglia, due guerre mondiali concluse da “un’enorme nube fallica seminatrice di morte” si intersecano con l’epopea del cinema visto che “i film sono la lingua franca del ventesimo secolo”. Non è soltanto quello: lo schermo e il buio della sala offrono l’humus ideale per deformare la storia, per ricondurla alla versione utile al governo di turno, all’emergenza del momento mentre, come spiega con meticolosa precisione Gore Vidal, “una funzione primaria della narrativa è quella di produrre empatia a beneficio di tutti coloro che altrimenti mancherebbero delle capacità di comprendere quanto un’altra persona sente o pensa”. Gore Vidal dissimula l’obiettivo nelle lunghe pagine in cui ricorda, racconta e celebra le produzioni delle dinastie di Hollywood all’epoca dei film muti e in bianco e nero, Frank Capra e Orson Welles, Eudora Welty e Mark Twain con Il principe e il povero, poi ammette che il cinema propaga “quel tipo di conoscenza profonda del cuore umano che si acquista dall’aver visto tanta storia sullo schermo”. Si capisce che il mezzo è ambivalente, la lezione resta disattesa ed è lì in mezzo che la lettura cinematografica diventa una critica più lungimirante: “A parte gli attori, è interessante notare quanta poca empatia venga coltivata o apprezzata nella nostra società. Lo attribuisco al nostro tradizionale razzismo e alla nostra ossessiva faziosità. Anche così, si potrebbe pensare che dovremmo sentirci incoraggiati a proiettarci nella personalità di qualcuno di razza o classe differente, se non altro tenerlo sotto controllo. Tuttavia non facciamo alcuno sforzo”. Messa da parte l’empatia, la limitata visione si accorda con quelli che Gore Vidal chiama “i fatti convenuti”, l’ultimo frutto di una metamorfosi che ha sostituito la realtà e annullato la verità. Il processo è lo stesso del cinema, solo che ormai “alla fine è colui che porta la storia sullo schermo a fare la storia”. Basta riavvolgere quel film fino al fermo immagine del 1991, per capire che Gore Vidal aveva visto giusto. Fin troppo.

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