giovedì 31 gennaio 2013

Breece D'J Pancake

I racconti di Trilobiti, dodici smorfie di dolore e di presagio,  sono frustate, nella migliore delle letture, e affiorano da un mondo blue collar dove un lavoro più o meno onesto è già tutto. Siamo nella Virginia occidentale, l’unico stato nato dalla guerra di secessione (come dire: un caso a parte) e Ginny, Jim, Sally, Buddy, Ellen, Skeevy, Corey (solo per citare l’inizio di una lunga teoria di nomi) sono imprigionati in un terra dura, che li nutre con il carbone incastonato tra arenaria e argilla, l’unica ricchezza, a parte la caccia e la pesca, vissute ancora in modo primordiale.  Scavano in miniera, vivono in carcasse di treni, abitano in macchine sfondate, le case dove cercano rifugio sono baracche degne del più infimo dei juke-joint e lo spettacolo più eccitante che gli può capitare è andare a vedere un mangiatore di serpenti. Questo è il paesaggio e siamo anche oltre il proletariato di Raymond Carver, in direzione ostinata verso il basso: uno dei lavori più agognati è viaggiare sul fiume, dove è sempre dura perché per rovinarsi basta che “qualcosa va storto, ci si aggrappa al cavo sbagliato, si fa un movimento stupido alle chiuse del canale. Ma se niente va storto, per un mese ci si ferma e se si è fortunati si può vivere in questo modo per il resto dei propri giorni”. In queste condizioni, anche solo una vaga idea di felicità rimane molto lontana e i rapporti sono sempre segnati da una violenza strisciante che, non di rado, si manifesta in modo eloquente e spietato. La scrittura di Breece Dexter John Pancake è intuitiva, aspra, intrisa di blues, attenta al minuscolo del quotidiano, al particolare della frase e alla formazione di frangenti che si stagliano nei racconti, passo dopo passo, con tutta la fatica di arrivare a un’espressione compiuta: “Voglio parlare, ma le immagini non diventano parole. Mi vedo disintegrato, ogni cellula a miglia di distanza dalle altre. Le rimetto tutte insieme e mi inginocchio sull’erba scura. Mi sdraio a faccia in su e guardo a lungo nel vuoto prima chiudere gli occhi”. Trilobiti alimenta i fantasmi e al saldo delle celebrazioni di Kurt Vonnegut, Tom Waits, Joyce Carol Oates, Andre Dubus, mostra un talento chiarissimo, senza dubbio, anche se  la tormentata storia di Breece D’J Pancake risuona indissolubile e in tutto il suo peso dagli unici racconti che ha lasciato. E’ il limite di frammenti collezionati per sempre, che sappiamo meravigliosi e nello stesso tempo brutali e disperati perché né lui né la sua scrittura avranno modo di crescere. Il fatto che si sia sparato (in modo voluto o accidentale, non fa molta differenza) lo rende tale e quale uno dei disperati protagonisti di Trilobiti e il processo di identificazione passa persino attraverso attraverso la percezione che le sue paure possano allontanarsi “in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”. Anche lui è partito: solo i Triboliti resteranno per sempre, proprio come fossili duri, secchi e compatti che lasciano aperta la porta a un’infinità di domande.

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