sabato 29 dicembre 2012

Jack Kerouac

Jack Kerouac è un nome che, dal punto di vista letterario, rimanda sempre a lunghe, infinite e ipersensibili frasi, buttate giù ispirandosi agli ormai famosi fraseggi di Charlie Parker o Sonny Rollins. L’immagine, nota per i suoi romanzi, è quella prosaica di uno scrittore che non riesce a staccarsi dalla pagina e dalle sue parole. Visione ormai un po’ consunta di Jack Kerouac che non era solo un documentarista esistenziale e autobiografo, ma un autore completo, capace di destreggiarsi attraverso prosa e poesia e, soprattutto, all’interno di un bagaglio culturale onnivoro e apparentemente confusionario, ma cosmopolita e magnetico. Aiuta a vederlo in questa prospettiva Il libro dei blues, raccolta di poesia in forma di appunti (o viceversa): non tutto il materiale è inedito perché parecchie delle liriche derivano da pubblicazioni datate e dai reading che si possono ascoltare, dal vivo, attraverso The Beat Generation (un bellissimo cofanetto discografico che raccoglie il meglio della produzione beat e dintorni: oltre a Kerouac, tra gli altri ci sono Allen Ginsberg, Lenny Bruce e Tom Waits), ma tutte le poesie valgono per il lavoro che Jack Kerouac ha compiuto sulla forma e sul linguaggio, diametralmente opposto rispetto a quello utilizzato per i lavori in prosa. Le liriche raccolte in Il libro dei blues mostrano un Jack Kerouac convinto, contento, spumeggiante e out of control, a suo agio nella dimensione poetica e musicale che si adatta su misura alle sue visioni non meno che al suo istinto. Si tratta di blues nell’accezione più generica del termine perché in realtà Il libro dei blues è composto da haiku, frammenti di sogni e di immagini raccolte dall’osservazione e dalla sensibilità di Jack Kerouac, come spiega lui stesso nella scarna e illuminante introduzione: “Nel mio sistema, la forma del chorus del blues è limitata dalla misura delle pagine del notes da taschino su cui li ho scritti, perciò a volte il senso delle parole può, o no, proseguire da un chorus all'altro, proprio come il senso della frase musicale nel jazz può, o no, estendersi armonicamente da un chorus all'altro”. E allora Jack Kerouac si deve limitare a lasciarsi impressionare da quello che vede e sente, prendendo appunti su appunti e limando, tagliando, cucendo sfodera versi a tratti deliranti, a tratti geniali, sempre e comunque ispirati ad una vita senza vincoli e con un briciolo di pazzia in più a renderla saporita. Sono parecchi i gioielli sparsi, ma ce n’è uno che vale la pena di riportare per intero, un po’ per esempio e un po’ per rendere onore al suo autore. Si tratta del 40° Chorus di San Francisco Blues: “E quando la testa mi comincia a girare, e ridono tutti gli amici, e il denaro mi casca dalla tasca, e oro dalle mie orecchie, e argento esce volando e esplodono rubini, salto su & mangio, e canto un’altra canzone, e caccerò altro vino nella pancia, perché sapete, che ha detto Omar Khayyam, è meglio stare allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo tutta la notte, cercando un senso, che non esiste”. 

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